Il cielo scuro di pioggia di una domenica d’estate non ha demotivato le migliaia di persone che si sono date appuntamento la sera in Piazza Maggiore davanti alle immagini di Paris, Texas, di cui il restauro in 4K restituisce la luce, gli spazi, la profondità; lo sguardo di Nastassja Kinski col suo golfino di angora rosa e quello di Harry Dean Stanton fra gli specchi della vita e del paesaggio di un’America sognata. È uno dei tanti frammenti nel mosaico di queste giornate al Cinema Ritrovato, a presentarlo sul palco c’è il suo autore, Wim Wenders, fra i protagonisti di questa edizione del festival che ha costruito nei suoi trentanove anni di vita un pubblico sempre in crescita attento non solo all’«evento» ma soprattutto ai film. Ciascuno presentato nella veste «rinnovata» di restauri attenti – come quello del Napoleon di Abel Gance, visto un mese fa al festival di Cannes, qui proiettato nella nuova e bellissima sala «sotterranea» del Modernissimo – che ne riportano alla vita l’immagine e il senso mettendoli in corrispondenza con la contemporaneità.

«Il passo del diavolo» di Anthony Mann (1950)

PRENDIAMO Il passo del diavolo, titolo italiano per l’originale Devil’s Doorway, magnifico western di Anthony Mann che nel 1950 pone la questione dei nativi americani e del loro massacro al di là (e al di qua) del «mito fondatore» nel dispositivo di una macchina coloniale capitalista che nega loro ogni tipo di riconoscimento all’interno della società. Ed è sorprendente vedere come nella complessità dei punti di vista messi in campo la storia americana – e la sua rappresentazione – siano interrogate da questioni di puntuale attualità. «La nostra relazione forse avrebbe funzionato tra cent’anni» dice il protagonista, un giovane nativo, all’avvocata (Paula Raymond) che lo ha difeso, proiettando nel futuro conflitti rimasti senza soluzione per quel pezzo d’America che ha continuato nel tempo a essere rimosso. Eppure lui, Lance Poole – interpretato da Robert Taylor – ci aveva creduto nel cambiamento, aveva combattuto nella Guerra civile per l’Unione, pensava che da allora col suo popolo avrebbero avuto nuovi diritti e l’eguaglianza con i «bianchi». E invece scopre che perderà tutto, la sua terra, i suoi sogni, che non può nemmeno chiedere una concessione perché i nativi non sono riconosciuti come cittadini americani, e non si tratta solo del divieto di bere al saloon ma di ogni cosa che non sia il ghetto delle riserve.

Se l’epoca di riferimento del film sono gli anni in cui il governo americano priva le tribù native delle loro terre confinandole nelle riserve, quando Mann lo realizza è stata da poco messa in atto la politica che dopo la Seconda guerra mondiale spingeva i nativi a migrare verso le città promettendo condizioni migliori – e in realtà l’obiettivo era disgregare completamente la loro cultura. Sono cambiate davvero le cose secoli dopo quella frase di Taylor/Lance? Viene da dire molto poco. In questo confronto Mann (regista amato dalla Nouvelle Vague, e a lui guarda sicuramente Scorsese per Killers of the Flower Moon) non si ferma al «tema» – come accade di frequente adesso nelle letture «a posteriori» di molto genere – ma lavora in profondità nel paesaggio del western; vi fonde il noir nel bianco e nero di John Alton tessendo le contraddizioni in profondità nella figura del suo «eroe» nativo – e dunque dal suo punto di vista – ribelle per dolore e per delusione, che lotta per la sua terra che è la sua vita sapendo di non avere futuro. Vederlo oggi è prezioso per ogni critica.
Con l’immagine affidata al volto enigmatico di Catherine Deneuve in Les parapluies de Cherbourg di Demy il festival lavora su piani molteplici, cresciuto nei suoi spazi in una modalità che dialoga con il territorio e con quanto fa parte delle attività annue nel «sistema» Cineteca che è senz’altro il più compiuto in Italia.

TRA I DIVERSI itinerari, quello delle battaglie femminili – e femministe – negli immaginari del mondo è messo in evidenza trasversalmente e in particolare all’interno del programma Cinema libero curato dal Cecilia Cenciarelli. È qui che è stato presentato The Sealed Soil (1977) della regista iraniana Marva Nabili, mai proiettato in Iran e divenuto nel tempo uno di quei titoli formativi per molte generazioni che lo hanno visto su videocassette o screener di bassa qualità.

La redazione consiglia:
Wim Wenders, passioni cinefile e il piacere del grande schermoLa copia qui – restaurata dall’UCLA di Los Angeles – ne restituisce la potenza di una ricerca formale che guarda alla miniatura persiana, alla pittura nel rapporto frontale fra la camera, i personaggi e i luoghi, e a una fisicità nella quale il corpo femminile è terreno e spazio di emozioni e di conflitti – c’è una sequenza molto bella in cui la protagonista si spoglia nella natura lasciando scorrere su di sé l’acqua della pioggia. Marva Nabili – che ha oggi 83 anni e ha salutato il pubblico con un piccolo messaggio video – porta nelle sue immagini la propria esperienza di artista visiva – aveva studiato Pittura all’Università di Tehran – che precede quella del cinema scoperto interpretando Siyavosh at Persepolis (1966), considerato uno dei riferimenti per la Nuova Onda del cinema iraniano (la regia è di Fereydoun Rahnema). Da lì si sposta a Londra e poi a New York, studia cinema, gira qualche film prima di tornare in Iran dove realizza per la televisione una serie ispirata alla fiabe persiane. E nello stesso momento gira anche The Sealed Soil, in 16 mm e con una troupe che era riuscita a avere grazie all’altro lavoro – Flora Shabaviz interpreta la protagonista, Barbod Taher è il direttore della fotografia.

MA COSA RACCONTA il film? Di una ragazza, appunto, in uno sperduto villaggio dell’Iran sud-occidentale, non più bambina, e quindi senza la libertà dell’età infantile della sua sorellina e delle altre bimbe e bimbi del villaggio, ma non ancora «adulta» perché non è sposata. È questo che la confina in casa, aspettando un marito che lei però rifiuta. In un limbo di solitudine e gesti quotidiani ripetuti la ragazza impazzisce mentre il villaggio la sottopone a un esorcismo credendola posseduta. Intanto la gente inizia a andare via sedotta dalle promesse di nuovi insediamenti che impoveriranno ancora di più le campagne. Al potere c’è ancora lo scià, anche se la Rivoluzione khomeinista sta per accadere – sarà nel 1978, il film viene terminato in America – e molte traiettorie di quel tempo sospeso suggeriscono le profonde cesure che lo attraversano. C’è per esempio una specularità di sguardi fra la ragazza e la giovane maestra della sorella che a capo scoperto e in pantaloni sembra suggerire una dimensione diversa, incarnando delle trasformazioni che erano state spesso di superficie, senza produrre una spinta diffusa che invece sembra appartenere al movimento Donna Vita Libertà. In cui la richiesta di libertà e di nuove condizioni di vita coinvolge e unisce più parti della società in una battaglia che prova a rispondere alle singolarità di ciascuna (e ciascuno).