Mario Masini, il cinema vissuto tra amore e professione
Mario Masini
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Mario Masini, il cinema vissuto tra amore e professione

Cinema È morto a 84 anni il direttore della fotografia e regista sperimentale, noto per il suo sodalizio con Carmelo Bene ha lavorato però con tanti, tra cui i fratelli Taviani e Haile Gerima. «X chiama Y» il suo film più importante
Pubblicato più di un anno faEdizione del 15 marzo 2023

Dopo una vita in bilico tra il cinema narrativo e quello underground, ma anche tra le immagini in movimento e l’antroposofia, se ne va anche Mario Masini, cineasta e direttore della fotografia, ormai da alcuni decenni residente in Germania. Savonese di nascita ma toscano di adozione, Masini si diploma al CSC nel 1961, lavorando nel corso degli anni ’60 come assistente, operatore e direttore della fotografia per diversi registi, tra cui gli sperimentali Romano Scavolini, Paolo Brunatto e Alfredo Leonardi. Quest’ultimo – raggiunto al telefono ieri – lo ricorda come una persona spontanea, diretta, spiritosa, che ha sempre vissuto il mestiere del cinema in modo quasi inconciliabile: era un professionista ma con un approccio volutamente da amatoriale.

Carmelo Bene in «Salomè» (1972)

MA È SOPRATTUTTO con Carmelo Bene che Masini stringe il sodalizio più importante, girando Nostra signora dei Turchi, Don Giovanni, Un Amleto di meno e Salomè. Il suo apporto è decisivo se pensiamo che il primo lungometraggio lo gira in autarchia risolvendo con grande rapidità e creatività infiniti problemi tecnici. Ecco come racconta quell’avventura nel libro-intervista L’eroico Masini (edizioni Artdigiland): «La macchina da presa era un’Arriflex 16 mm. Come luci, presi a poche lire un generatore dei tempi della guerra, e con un camioncino lo portai fino a Santa Cesarea Terme. Questo generatore, qualche stativo, poche lampade (delle “pinze” da 500 W) e la macchina da presa erano tutto il nostro armamentario. Su un’altra macchina mi imbarcai con mia moglie e i miei figli, Tommasino e Pippo. Carmelo mi diede alloggio nei pressi di casa sua. Avevo un assistente operatore che dopo dieci giorni mi disse: “Non ce la faccio più, torno a Roma”. Mi arrangiai a fare tutto da solo». In Salomè – film apprezzato da de Chirico per il lavoro sul colore – sarà sua l’idea di utilizzare lo scotchlite, materiale fluorescente della 3M, una scelta che determina l’intera riuscita dell’operazione che dal punto di vista della fotografia (combinato alle scenografie di Gino Marotta) resta un capolavoro ineguagliato.
Negli anni ’70 Masini collabora sia con registi quali i fratelli Taviani (San Michele aveva un gallo e Padre Padrone, che ottiene una Palma d’oro a Cannes), Luigi di Gianni (Il tempo dell’inizio) o Nino Russo (Il giorno dell’assunta), ma gira anche X chiama Y e le parti dal vero di Allegro non troppo di Bruno Bozzetto. Dopo una lunga interruzione negli anni ’80 – quando si dedica all’insegnamento steineriano, prima a Roma e poi a Stoccarda dove si era nel frattempo trasferito -, nel 1993 Masini ritorna dietro la macchina da presa grazie al suo vecchio amico Brunatto, per il quale filma il making of del Piccolo Buddah di Bertolucci.

DA QUEL MOMENTO è ripresa intensa la sua attività di autore della fotografia per una ventina di film, prodotti da paesi come Germania, Portogallo, Mozambico, Francia. Tra di essi i lavori del portoghese Fernando Vendrell o dell’etiope Haile Gerima (Teza vince nel 2008 il Leone d’Argento a Venezia). Gli unici film italiani, oltre a Tutto parla di te (2012) di Alina Marazzi, sono i folli e surreali De Sancta Quiete e Dio c’è perché non esiste (2016) di Nicola Vicidomini, un medio e un cortometraggio che segnano il suo ritorno al cinema underground. Ma l’abilità di Masini non si evince solo dalle opere di sperimentali o di finzione, bensì anche da reportage come Dentro il carcere (1970) di Arrigo Montanari: viaggio-inchiesta per la Rai sulle prigioni italiane dal nord al sud, dove, aggirandosi con la sua fluida 16mm a spalla, riesce a calarci fisicamente in quel tragico universo. Un documentario che, rivisto ancora oggi, resta un’incredibile lezione sia di cinema che di televisione.

NON MENO significativo è il Masini cineasta, autore di cinque film: il primo dei quali, Il sogno di Anita (1963), non più reperibile e l’ultimo, La sciarpa rossa, realizzato in Germania cinque anni fa. In mezzo vi sono: Immagine del tempo (1964), 16mm della durata di appena quattro minuti che prende spunto da una litografia di Emilio Vedova, rendendo cinetica la pittura informale del pittore veneziano; e Insomma (1965), girato in «famiglia» con Brunatto e le rispettive compagne, nonché caratterizzato da una struttura a salti un po’ godardiana con interventi di musica elettronica di Vittorio Gelmetti. La sua opera più importante resta comunque il mediometraggio X chiama Y (1967), testimonianza di come si possa documentare la propria vita familiare in progress, con la semplicità di un home movie, girato però da chi conosce bene il linguaggio, ed è costretto ad azzerarlo, per poter ricominciare a filmare con totale naturalezza. Girato nell’arco di due anni seguendo cronologicamente gli eventi di casa Masini, dalla crescita del primo figlio Pippo alla nascita del secondogenito Tommaso, il film vuole essere – come mi raccontò lo stesso Mario nel 1999 – una lode alla donna: «XX è il cromosoma femminile, XY quello maschile; togliendo X sia nel primo, sia nel secondo fattore, otteniamo X per la donna, Y per l’uomo. Quindi la donna chiama l’uomo. Cioè la donna desidera che l’uomo sia più attento, più presente nel rapporto col mondo, più concreto e meno astratto».

X chiama Y è diviso nettamente in due parti: la prima velocizzata ed esasperata fino all’astrazione, ma con pause e sospensioni; la seconda caratterizzata dall’uso di piani-sequenza o da inquadrature più lunghe, che stemperano la dimensione elettrica della prima metà del film. La cesura è segnata da un lungo campo, e da un successivo controcampo, realizzati con l’autoscatto, dove appare lo stesso Masini che dialoga in presa diretta con la moglie, davanti al mare. X chiama Y è un film d’amore nel senso più profondo della parola. Amore verso la propria compagna e i propri figli, che si manifesta attraverso uno sguardo costante, accurato, ma senza compiacimenti, con l’atteggiamento sereno e distaccato di chi contempla il fluire delle cose. E immaginiamo che con questo stesso spirito Mario abbia intrapreso il suo nuovo viaggio.

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