In un’indimenticabile serata al teatro Brancaccio di Roma, nei primi anni settanta, uno spilungone biondo coi capelli lunghi tramortì con un lunghissimo assolo di armonica, definito orgiastic dal «Guardian» e pirotecnico dai reporter nostrani, un pubblico in visibilio che aveva solo sentito parlare di British blues, dell’adattamento dello stile urbano di Chicago e delle sue dodici battute in terra d’Albione e si era baloccato con un brano capolavoro, Room to Move.

QUEL CICLONE si chiamava John Mayall, passato da qualche giorno a deliziare il Paradiso all’età di 90 anni, nato nella periferia suburbana di Manchester, autodidatta di chitarra, tastiere e armonica, gran cultore di jazz e blues, con Robert Johnson e Blind Lemon Jefferson nel cuore, folgorato dall’incontro con l’altra stella blues britannica, Alexis Korner prima di iniziare le sue scorribande londinesi, tra il Marquee e altri club di appassionati, formando nel 1963 i Bluesbreakers, la migliore officina di giovani talenti che imparavano la musica del diavolo da questo ensemble di puristi del sound e poi la sporcavano con eclettismi pop, rock’n’roll viscerale, curiosi imbellimenti (solo per fare qualche nome Rolling Stones, Cream, Fleetwood Mac e tantissimi altri).

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Fleetwood Mac, la band che nacque due volteNel corso degli anni i Bluesbreakers hanno annoverato sul palco Eric Clapton e Jack Bruce, poi dei Cream; Mick Fleetwood, John McVie e Peter Green dei Fleetwood Mac; Mick Taylor, che ha suonato per cinque anni con i Rolling Stones; Harvey Mandel e Larry Taylor dei Canned Heat; e Jon Mark e John Almond, che hanno poi formato la Mark-Almond Band e tanti altri. Nel 2003, per il suo settantesimo compleanno, il biondo patriarca del rockblues bianco riunì in un fantasmagorico concerto a Liverpool (finito poi in un doppio cd e dvd) molti dei musicisti che avevano fatto parte della sua band tra cui Eric Clapton e ha continuato ad esibirsi in giro per il mondo, al ritmo di 200 concerti l’anno, passando regolarmente dal Pistoia Blues Festival e da gloriosi tour italiani, circondato dal calore di tantissimi che gli hanno sempre tributato grandi onori sebbene fosse ingobbito, leggermente imbiancato, con gli occhiali e il canto un po’ addolcito ma con una straordinaria passione trasmessa dal virus delle sette note.

Dal 1969 si era trasferito a vivere in California, in piena era psichedelica, evocata con la stupenda originalissima voce a improvvisare su accompagnamenti diversi ma un vasto incendio distrusse la sua casa (compresi i diari di 25 anni on the road) e solo molti anni più tardi ha scritto la sua autobiografia Blues from Laurel Canyon. My life as a bluesman, molto centrata sule esperienze e gli incontri degli anni 60 e 70 che hanno forgiato il suo stile e la sua vita professionale (e non solo – due mogli, sei figli, una paccata di nipotini).

IN QUEGLI ANNI con Mick Taylor alla chitarra, Dick Heckstall-Smith al sax e Jon Hiseman alla batteria, compose e incise Bare Wires, il suo raffinato tuffo nel jazz (compresa una suite di 23 minuti) anche se un altro album storica pietra miliare è The Turning Point, puramente acustico quanto travolgente. Il suo repertorio è andato avanti, tra difficili marosi e soavi bonacce, costituendo un’opera davvero colossale, inseguendo l’utopia anni 70 della fusione col rock e col jazz, con risultati talvolta brillanti e qualche volta meno, riconosciuto universalmente come un pioniere della rivoluzione musicale.
Polistrumentista amato dappertutto, Mayall ha ottenuto una nomination ai Grammy per Wake Up Call, che vedeva ospiti Mick Taylor, Buddy Guy, Mavis Staples e Albert Collins. Ha ricevuto un’altra nomination nel 2022 per l’album The Sun Is Shining Down. Ha ottenuto anche un riconoscimento ufficiale in Gran Bretagna con l’assegnazione del titolo di Officer of the Order of the British Empire nel 2005. È entrato nel 2024 della Rock & Roll Hall of Fame e il suo album del 1966 Blues Breakers With Eric Clapton è considerato uno dei migliori album di blues britannico.