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Miles Davis e lo strano «quintetto fantasma»Ora che è morto novantenne possiamo pur chiederci se preferiamo il Wayne Shorter col quintetto anni ’60 di Miles Davis o il Wayne Shorter dei Weather Report o quello che dalla fine degli anni ’80 torna al jazz di punta a capo di un quartetto che fa epoca e desta ammirazione sconfinata in tutto il mondo. Ma è un esercizio non tanto utile. Shorter è un artista che procede per tutta la carriera seguendo il criterio dell’evoluzione nella sostanziale continuità. Sicuramente ci sono momenti diversi del suo idioma. Dove ci sono passi evolutivi significativi si sente, non è una storia senza traumi (positivi) la sua.
Nasce musicalmente anche lui da John Coltrane, diciamo anche perché negli anni ’50 del secolo scorso e poi per un bel po’ di tempo i sassofonisti tenori e soprani dell’universo jazzistico erano soggiogati (altro che «influenzati»!) dall’eloquio torrenziale e lirico, si potrebbe persino dire sentimentale in certi momenti, del compagno di Davis del primo glorioso quintetto e poi rivoluzionario in proprio fino alle avventure free sulle orme degli sperimentatori come Ornette Coleman e Cecil Taylor. Shorter ha meno impeto di Coltrane, però. Non punta sulle atmosfere roventi ma di più su quelle che lasciano spazio alla cantabilità contenuta.
Shorter ha da subito, già nella sua militanza con i Jazz Messengers di Art Blakey tra il 1959 e il 1964, una sonorità non lussureggiante come quella di Coltrane, non così pastosa, ma più asciutta. E il suo fraseggio evita le sequenze fitte di note così come le forzature del registro che sono del Coltrane estremo. Costruisce la sua lingua musicale con un quid di moderazione e un quid di graduale scoperta.

SUONA con Davis dal 1964 al 1970. Dopo che già prima, con i Jazz Messengers, si era fatto notare come arrangiatore e compositore (ha la tempra del leader, eppure nella sua carriera lo vediamo più spesso come partner illustre, prezioso, e bisognerà aspettare gli anni ’90 per vederlo leader stabile). Siamo nell’epoca del quintetto davisiano con Shorter al sax tenore, Herbie Hancock al pianoforte, Ron Carter al contrabbasso, Tony Williams alla batteria, oltre al leader alla tromba naturalmente. Quintetto favoloso che Davis guida verso uno sbocco imprevisto.Tra bebop e fusion. La militanza nei Weather Report, le collaborazioni con Miles Davis, Joni Mitchell, Santana

LE ULTIME prove di Shorter con Davis, col quintetto allargato e poi con ensemble ampi, sono all’insegna dell’acquisizione della dimensione elettrica (sonora e filosofica). Miles in the Sky, In a Silent Way, Bitches Brew sono le tappe di una rivoluzione in cui i richiami al funky sono molto forti ma altrettanto forti sono le rotture col linguaggio classico e le influenze (non dichiarate) del free. Dopo il momento-clou di Bitches Brew Davis prosegue per la sua strada elettrica in quintetto, per un periodo breve. Con lui c’è Shorter e ci sono Chick Corea al pianoforte elettrico, Dave Holland al contrabbasso, Jack DeJohnette alla batteria. Si va ancora più avanti dal punto di vista dell’innovazine linguistica. E Shorter esprime in questa fase la sua propensione per una visione d’avanguardia della musica. Con punteggiature sorprendenti, con pause inattese. Sempre mantenendo una sonorità controllata.

SI POTREBBE pensare che l’ingresso nel 1970 di Shorter nei Weather Report, dove usa più spesso il sax soprano ed è certo la «mente» del gruppo insieme al tastierista Joe Zawinul, rappresenti un’involuzione, un’accettazione di una musica più «commerciale» e più chiaramente jazz-rock. Dal punto di vista di una storia culturale del jazz quell’affermazione si potrebbe anche fare. Ma il solista Shorter mantiene il suo livello di inventiva anche se nasconde un po’ (un bel po’…) le tinte avant-garde precedenti.
L’era Weather Report è destinata a chiudersi. Troviamo Shorter rilassato durante gli anni ’80, quasi in vacanza con Joni Mitchell e persino con Pino Daniele. Ma non c’è da temere. La sua grandezza di musicista raffinato e cultore della libertà riflessiva si fa strada di nuovo nel jazz che conta. Il suo quartetto che ascoltiamo nel fondamentale Footprints del 2001 (lui ai sax tenore e soprano, Danilo Perez al pianoforte, John Patitucci al contrabbasso, Brian Blade alla batteria) è da massimo dei voti. La sua lingua è quella della nuova avanguardia, dove l’azzardo e la cantabilità e gli affetti hanno piena cittadinanza.