Miles Davis e lo strano «quintetto fantasma»
Pagine/Il saggio di Bob Gluck rilegge le vicende del gruppo del trombettista afroamericano di cui non esistono incisioni Oltre al suo leader storico, dell’ensemble facevano parte fenomeni come Shorter, Corea, Holland, e DeJohnette. Il rapporto con altre formazioni «rivoluzionarie» del periodo
Pagine/Il saggio di Bob Gluck rilegge le vicende del gruppo del trombettista afroamericano di cui non esistono incisioni Oltre al suo leader storico, dell’ensemble facevano parte fenomeni come Shorter, Corea, Holland, e DeJohnette. Il rapporto con altre formazioni «rivoluzionarie» del periodo
Per chi ha ascoltato a suo tempo e poi riascoltato con attenzione e gran piacere (non per la resa delle registrazioni, certo) i bootleg Miles Davis Quintet Complete Live at the Blue Coronet 1969, Double Image e Paraphernalia, il quintetto guidato da Miles Davis nei tardi anni Sessanta del secolo scorso con Wayne Shorter ai sax tenore e soprano, Chick Corea al pianoforte elettrico, Dave Holland al contrabbasso e al basso elettrico, Jack DeJohnette alla batteria, non era affatto un ensemble «perduto». Ma quel quintetto non ha mai registrato niente in studio, ha solo suonato dal vivo sia negli Stati Uniti sia in Europa, accogliendo consensi (in maggioranza) e dissensi. Per i jazzofili conservatori quel gruppo era più o meno da mettere all’indice. Non manteneva lo schema: tema in unisono+assoli dei solisti principali+ritorno del tema e chiusa. Non viaggiava sulle sicure armonie del giro di accordi e nemmeno su quelle delle scale modali, osannate anche dai conservatori nel celebre (e giustamente ritenuto fondamentale) Kind of Blue. Non assegnava a pianoforte basso batteria la funzione classica dell’accompagnamento e della bussola su sicure rotte, sia pure con le varianti che i partner geniali tipo, per esempio, Herbie Hancock o Tony Williams, piano e batteria, potevano esibire nel recente passato della carriera dell’immenso trombettista (e leader). E poi il delitto più grave di tutti: introduceva gli strumenti elettrici nel consolidato mondo del jazz, un mondo da sempre ricco di sorprese e di azzardi ma non per i conservatori che lo vedevano come un mondo di regole sonore rigorosamente acustiche solo diverse da quelle della musica classica e della musica leggera (che nel frattempo aveva acquisito il rock con tutte le sue complesse elaborazioni e non era più così tanto «leggera»). Al posto di quelle rassicuranti strutture il Quintetto Perduto proponeva un fitto dialogo senza apparenti punti di aggancio prevedibile tra i membri della cosiddetta sezione ritmica e poi assoli di Davis, Shorter e Corea dove trovavi strane curve melodiche, frequenti escursioni sui sovracuti e sui gravi rumoristici e tante dissonanze e cluster. Insomma, roba da mettere all’indice.
SPERIMENTAZIONI
Quintetto Perduto. È così che lo chiama Bob Gluck nel volume appena pubblicato in traduzione italiana da Quodlibet: Miles Davis il Quintetto Perduto e altre rivoluzioni. Per la verità l’edizione originale americana, uscita nel 2016 presso l’University of Chicago Press, recita …and Other Revolutionary Ensembles. Mette cioè in relazione elencatoria quel Quintetto di Miles con altre formazioni rivoluzionarie dell’epoca. Ma il titolo italiano è più giusto. Pone l’accento su un periodo di rivoluzioni musicali, rimanda a un clima culturale di sperimentazione, a un clima sociale di ribellione, a una curiosità divorante che animava Miles come altri musicisti che desideravano scoprire nuovi mondi. Lui era ben dentro questa magnifica tensione, respirava l’aria di rivoluzione a pieni polmoni. Anche se si pronunciava sui grandi del free, sui jazzmen radicali (quanto lo era lui senza dirlo) con parole di critica sprezzante. Quasi non fosse il Miles innovatore, il Miles che suonava free. Diciamolo finalmente: quel Miles di fine anni Sessanta cominciava a suonare free e avrebbe suonato free ancora più decisamente con i gruppi elettrici allargati, parecchio funky, che avrebbe diretto nei mesi e anni successivi. Ma agli eroi del free come Ornette Coleman, Cecil Taylor e Archie Shepp riservava veleno. Nella tumultuosa storia di una vita raccontata a Quincy Troupe, edita in Italia da Minimum Fax, Miles. L’autobiografia (2001-2010), ecco qualche fiala del veleno: «Mi piacevano sia Ornette sia Don come persone… ma non vedevo o sentivo niente di tanto rivoluzionario nel loro modo di suonare… Molti dei musicisti più giovani e dei critici mi saltarono letteralmente al collo quando criticai Ornette in questo modo, mi chiamarono “vecchio stile” e stronzate del genere. Ma non mi piaceva il modo in cui suonavano, specialmente Don Cherry con quella sua trombetta. Mi sembrava stesse solo lì a buttar fuori un mucchio di note con aria molto seria e alla gente piaceva, perché alla gente piace tutto quello che non riesce a capire…». «Mi pare che Cecil Taylor sia apparso sulla scena più o meno nello stesso periodo di Ornette, forse poco dopo (errore: Taylor è già attivo nel 1955 con un quartetto che comprende Steve Lacy e registra il suo primo album, Jazz Advance, nel 1956, mentre Coleman pubblica il suo primo album, Something Else! The Music of Ornette Coleman, nel 1958, ndr). Faceva al pianoforte quello che Ornette e Don facevano con i fiati. E di lui avevo la stessa opinione… C’erano un mucchio di note suonate tanto per suonarle. Era solo uno che voleva mettere in mostra tutta la tecnica che possedeva». «Penso che sia stato Tony a portare Archie Shepp al Vanguard una sera, e suonò così male che presi e me ne andai dal palco. Non era in grado di suonare e non avevo intenzione di starmene lì con quel figlio di puttana incapace».
LA SVOLTA
Insomma un Miles parruccone, un Miles simile ai jazzfan conservatori a loro volta simili agli appassionati di «classica» che arrivano con fatica a Wagner e poi rifiutano i musicisti che sulle vie del pancromatismo vanno oltre, come i viennesi Schönberg, Berg e Webern. Per fortuna erano solo parole. E tra l’altro mitigate in altri punti dell’Autobiografia da tiepidi riconoscimenti all’opera del primo Coleman: «… quello che facevano all’inizio era semplicemente suonare in maniera spontanea, senza vincoli formali…». Davis compì con fervore durante gli anni Sessanta tutto il tragitto mirabile del «secondo quintetto», quello con Shorter, Hancock, Ron Carter e Williams, scoprendo man mano le possibili varianti e novità fino alla pubblicazione nel 1968 di Filles de Kilimanjaro e di Miles in the Sky e nel 1969 di In a Silent Way. Nei primi due Hancock suonava anche il pianoforte elettrico e in un brano di Filles intitolato Mademoiselle Mabry Hancock e Carter erano sostituiti da Chick Corea e da Dave Holland, futuri membri del Quintetto Perduto. Nel terzo album la svolta elettrica era ormai compiuta: c’erano tre pianoforti elettrici e un organo elettrico nel gruppo, suonati da Hancock, Corea e Joe Zawinul, c’era un chitarrista elettrico votato a un futuro nella fusion ricercata come John McLaughlin. Al basso era fisso Holland. Era il periodo, prima della pubblicazione del seminale Bitches Brew, in cui si formò il Quintetto Perduto.
Senza dubbio il Quintetto Perduto era meno ricco di quei richiami al rock, al funky, alla musica d’ambiente, alla musica elettronica, alla psichedelia che connotavano il gruppo ampio di In a Silent Way, ma in compenso l’aura sperimentale vi si sentiva di più. Nel suo libro Bob Gluck ricostruisce il formarsi di quest’aura attraverso le biografie dei partner di Davis, in particolare di Corea, Holland e DeJohnette. Il pianista cresce col culto di Bud Powell, ama Bartók e Stravinskij, muove i primi passi in veste di jazzista mainstream con qualche interesse per il latin, scopre il piacere dell’innovazione e persino di un certo radicalismo nel momento dell’incontro con Davis (e con Holland e DeJohnette) e dell’impiego del pianoforte elettrico. Il contrabbassista ha esperienze di free improvisation nella natia Gran Bretagna prima di essere chiamato da Davis. Il batterista fa già parte, prima della collaborazione con Davis, dell’Aacm di Chicago, l’associazione che promuove una musica d’avanguardia realizzata con spirito egualitario nella quale improvvisazione e composizione sono senza schemi. Ha accanto musicisti come Anthony Braxton e Leroy Jenkins che ritroviamo nelle pagine del volume di Gluck.
NARRAZIONI
Nella narrazione analitica della breve vita del Quintetto Perduto lo scrittore, rabbino, pianista, compositore e professore di musica Gluck compie un’operazione curiosa e diabolica. Attribuisce in sostanza il merito della tensione trasformatrice che anima l’ensemble ai tre della «sezione ritmica». È la crescente intesa propulsiva tra Corea, Holland e DeJohnette che determina la rivoluzione sonora in atto. Il batterista è sapientissimo nel mantenere la costanza della pulsazione pur lanciandosi in una gran varietà di figurazioni, il pianista e il bassista fanno insieme a lui prodigi di libertà inventiva. Eccone una descrizione gluckiana (siamo a Parigi alla Salle Pleyel il 3 novembre 1969): «L’approccio percussivo di Chick Corea al Fender Rhodes è esemplificato in un duetto tra piano elettrico e batteria durante l’esecuzione di Bitches Brew… Le incessanti linee di Holland fluiscono costantemente in sottofondo. La scelta di Corea di alternare continui cluster ricorda Cecil Taylor. Più avanti rapide serie di note si espandono in ulteriori cluster. DeJohnette segue da vicino l’intera sequenza, interagendo intensamente con le costruzioni del pianista. Nel secondo concerto Corea accompagna Shorter con una serie di accordi in ostinato, complessi e ritmici. Presto, come a sottolineare l’essenza ritmica del momento, egli abbandona completamente il Fender Rhodes passando a una seconda batteria per aggiungere un ulteriore strato ritmico alle percussioni di DeJohnette. Dopo una sequenza di Shorter che ricorda l’ultimo Coltrane, i due batteristi e Holland proseguono in trio accumulando rullate su rullate su tutti i tamburi, con DeJohnette alla guida. Anche dopo esser tornato al Fender Rhodes, Corea continua a suonare come se fosse alla batteria, offrendo cluster a cascata e astratte volate».
E Miles? Secondo Gluck ha nel gruppo il compito di organizzare il discorso complessivo e quasi di tenere a freno le avventure dei tre partner. «Ci si può… domandare se la sezione ritmica non sia andata oltre i confini dell’area di sicurezza di Miles. Shorter ricorda che dopo aver eseguito il suo assolo e aver raggiunto Miles dietro le quinte, capitava che il trombettista gli dicesse: “Che cazzo sta succedendo là fuori?”». Alla sua evoluzione e anzi rivoluzione di solista, all’importanza delle parti solistiche di Davis in un idioma che è altrettanto se non più sperimentale di quello dei partner, caratterizzato dall’«astrazione musicale», come scrive Gluck per designare ciò che noi chiamiamo suonare free, lo scrittore dedica poca attenzione. Nota un «diverso genere di assolo trombettistico, delle coppie di note balbettanti o dei frammenti di melodie legati assieme in cui la quantità dei silenzi e quella delle note avevano lo stesso peso». Insomma, i suoni singoli autonomi, i sovracuti «fuori registro», il procedere senza una consequenzialità melodico-armonica classica e senza una logica «narrativa». Davis è già questo genere di linguaggio musicale nel Quintetto Perduto e lo sarà ancora di più nella «giungla elettrica» dei gruppi allargati che verranno in seguito, nei primi anni Settanta, situazioni in cui un battito frastagliato che evocherà il funky gli permetterà di accentuare non di moderare l’audacia delle sue sortite solistiche.
Ma il pregio del volume di Gluck è veramente unico nell’indagine sulle connessioni tra le esperienze di Davis e le avanguardie jazzistiche di quel periodo. Jazzistiche e non, visto che tra gli ensemble che vengono osservati c’è anche Mev, Musica Elettronica Viva, il gruppo fondato a Roma da Alvin Curran, Frederic Rzewski e Richard Teitelbaum, tutti musicisti che avevano saggiato la neoavanguardia darmstadtiana e l’avevano lasciata alle spalle per inoltrarsi in un campo sonoro aperto dove l’improvvisazione totale, l’elettronica d’uso, gli oggetti della vita quotidiana e anche il nuovissimo jazz giocavano le loro carte in assemblaggi spericolati.
INCASTRI
Come si arriva nell’itinerario di Gluck dal Davis del Quintetto Perduto a Mev? Da un punto di vista biografico-topografico ci si arriva attraverso la figura di Anthony Braxton. Perché il polistrumentista e compositore che nel 1969 aveva registrato in solitudine un memorabile, sconvolgente For Alto, vero saggio di filosofia post-free in cui reminiscenze bop, cageane, stockhauseniane e cool aprivano la strada a un tipo di «musica nuova» del tutto antidogmatica, parosssistica e distesa, concettuale e lirica, questo giovane Braxton che era tra gli eminenti pensatori e solisti dell’Aacm, incrocia nell’anno 1970 tra Parigi e New York i pirati di Mev, suona con loro in vari concerti, ma più o meno negli stessi mesi o poco dopo incrocia, più stabilmente, Chick Corea e Dave Holland. I due, ancora con Davis nell’agosto 1970 ma prossimi ad abbandonarlo per sempre, certo arricchiti dalla militanza nei suoi gruppi, hanno fondato Circle. Prima è un trio con Corea, Holland e un nuovo batterista-percussionista, Barry Altschul, che diverrà un partner d’elezione di Braxton stesso e di un altro freejazzman, Sam Rivers. Poi al trio si aggiunge Braxton, il quartetto dà concerti in Europa e in Usa (anche a Bergamo Jazz nel marzo 1971), registra in studio e live. La casa discografica Ecm documenta in due lp il discorso assai complesso di Circle come si svolge il 21 febbraio 1971 alla Maison del l’Ortf di Parigi (Paris Concert, 1972).
«Si sarebbe tentati di descrivere i Circle semplicemente come un ulteriore sviluppo delle tendenze espresse da Corea e Holland nell’ambito del gruppo di Miles Davis», scrive Gluck. Ma la differenza è notevole, come ritiene lo stesso Gluck. A cominciare dal fatto non secondario che nel caso di Circle si tratta di un ensemble sostanzialmente acustico. E l’apporto di Braxton, che secondo Gluck tende «all’esplorazione del suono e del gesto in sé stessi», è decisivo nel delineare il carattere del gruppo. Così che, conclude Gluck, «i Circle allontanarono il duo (Corea-Holland, ndr) dall’orbita di Davis e lo spinsero verso una musica influenzata dall’Association for the Advancement of Creative Musicians e dal tardo John Coltrane». Resta però quell’impulso davisiano, quello stimolo a guardare oltre, a fare musica libera attraverso polifonie spontanee e informali. Fattori da non trascurare.
C’è un altro ensemble che Gluck nel suo libro racconta e analizza. Partendo sempre dal Quintetto Perduto. Stavolta il nesso sul piano dei contenuti musicali è ancora più labile, ma c’è il nesso biografico ed è di nuovo la vicenda di Braxton in quel periodo. Il grande chicagoano che farà gruppo con i «davisiani» Corea e Holland registra in Usa e a Parigi nel 1968 e 1969 vari lavori nei quali è forte e qualificante il dialogo col violinista e violista Leroy Jenkins. E questo importantissimo musicista costituisce a partire dalle prime prove del 1970 un trio che dichiara già dal nome la sua vocazione: The Revolutionary Ensemble. Con Jenkins ci sono il contrabbassista Sirone (nome d’arte di Norris Jones) e il percussionista Jerome Cooper. Tutti sono polistrumentisti, come è comune tra i musicisti post-free dell’epoca, basti pensare all’Art Ensemble of Chicago. Ma la particolarità del gruppo è l’impronta timbrica di due archi, anche se l’irregolarità e il protagonismo della pulsazione di Cooper non mettono certo i suoi strumenti in secondo piano. Il trio pubblica album strepitosi: Vietnam (1972), Manhattan Cycles (1973), The Psyche (1975), The People’s Republic (1976). Utilizza spesso registrazioni di voci di strada o di dischi storici, fa improvvisazione collettiva pura, improvvisa su tracce che hanno una intensità lirica da colpo al cuore, destruttura e ricompone la materia sonora. Pensiamo ancora a Miles? Certo. A Miles il rivoluzionario.
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