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Aby Warburg, l’atlante dei suoi rapporti con Firenze

Aby Warburg, l’atlante dei suoi rapporti con FirenzeAby Warburg a Firenze, al tavolo di lavoro

A Firenze, Uffizi Séguito delle mostre tedesche 2020-’21, l’occasione attuale indaga sulla miniera che fu per Aby Warburg il Rinascimento fiorentino, su come incise nell’ideazione del suo celebre «Bilderatlas Mnemosyne»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 15 ottobre 2023

In A Room With a View di E.M. Forster (1908), Lucy passeggiando per Firenze acquista una riproduzione della Venere di Botticelli, a cui già da diversi anni, allora, un giovane studioso tedesco aveva dedicato una ricerca del tutto innovativa, e rimasta in qualche modo mitica. Aby Warburg aveva soggiornato per la prima volta a Firenze nel 1888, per lavorare sui due celeberrimi capolavori mitologici di Botticelli, la Primavera e la Nascita di Venere, e alla Firenze del Rinascimento, in particolare quella del secondo Quattrocento di Antonio del Pollaiolo e di Ghirlandaio, lo studioso di Amburgo sarebbe rimasto legato per sempre, tornandovi più volte, e affacciandosi da diverse camere con vista – sull’Arno, proprio come quelle di Lucy, Charlotte e George –, ed è da questo sconfinato amore per Firenze condiviso da tedeschi e inglesi, declinatosi in tanti modi diversi, che nasce il titolo della mostra ideata da Gerhard Wolf in corso fino al 10 dicembre agli Uffizi, Camere con vista Aby Warburg, Firenze e il laboratorio delle immagini. Una mostra coraggiosa e difficile (onore in questo senso al direttore delle Gallerie, e co-curatore, Eike Schmidt), ma anche bella, che forse si rivolge principalmente agli studiosi – come era Warburg – ma sarà vista soprattutto da turisti – come era Lucy – anche perché file e costo d’ingresso (26 euro!) scoraggeranno parte del pubblico d’elezione di una simile rassegna: il problema delle mostre inserite nel percorso di visita di musei come gli Uffizi o la Galleria Borghese, senza un biglietto a parte, è ben noto.

Nessuna sede, però, sarebbe stata più adatta degli Uffizi a ospitare questa mostra, e il visitatore lo capisce immediatamente, quando arriva nella sala della Primavera e vi trova accanto un pannello affollato di immagini dal sapore vintage, trattandosi di foto d’epoca, prima di tutto botticelliane. Camere con vista, infatti, non nasce per commemorare effimeri centenari, costituendo invece il naturale e virtuoso proseguimento delle esposizioni tenutesi in Germania (2020-’21) intorno al Bilderatlas Mnemosyne, ovvero l’Atlante della Memoria, a cui Warburg lavorava già da molti anni quando la morte lo colse nel 1929. Si trattava di un’opera davvero sui generis, rimasta senza seguito: lo studioso, riflettendo sulla fortuna e la migrazione delle immagini, intese come potenti sintesi di forma e significato, aveva praticamente abbandonato lo strumento principe di ogni studioso umanista, ovvero la parola scritta, da concretizzarsi in un saggio o in un libro, per affidare i suoi risultati alla libera ma meditata associazione delle immagini stesse, ordinate su grandi pannelli di tela nera.

Un dettaglio della «Primavera» di Sandro Botticelli. Firenze, Galleria degli Uffizi

Nell’archivio del Warburg Institute – il centro di studi sulla fortuna dell’Antico, con particolare riferimento al Rinascimento, nato ad Amburgo all’inizio del secolo ed emigrato a Londra nel 1936, dopo la morte del suo fondatore, per sfuggire alle persecuzioni naziste – sono stati pian piano recuperati i materiali originali (soprattutto fotografie, ma anche cartoline e ritagli) impiegati da Warburg per le 63 tavole dell’Atlante. Sebbene la mostra in corso intenda indagare soprattutto il rapporto dello studioso con Firenze (e quindi, giustamente, non c’è ad esempio una sezione sulla più celebre tra le scoperte di Warburg, ovvero il significato iconografico degli affreschi di Schifanoia a Ferrara), attraverso anche una sezione sulle trasformazioni della città tra Otto e Novecento, sono questi pannelli i protagonisti e la ragion d’essere della rassegna. Originariamente materiali e/o risultati di studio, per loro natura sempre aperti e suscettibili di variazioni e integrazioni, i pannelli sono ormai assurti quasi allo status di opere d’arte intoccabili, forse ancora più affascinanti oggi che hanno acquistato un carattere profetico rispetto alla nostra epoca affastellata di immagini che si rincorrono riecheggiandosi.

Una significativa antologia dall’Atlante si dispiega quindi nelle cinque stanze principali della mostra – al termine del primo braccio della Galleria delle Statue, accanto alla Tribuna – insieme a foto Alinari, a incisioni e disegni degli Uffizi, ma anche a disegni dello stesso Warburg. Provando a seguire il percorso intellettuale dello studioso, e passando anche per un’esemplare stanza dedicata al tema della festa – con i disegni e le incisioni che proprio Warburg studiò per la prima volta attraverso un incredibile approccio interdisciplinare (quando quella parola ancora non esisteva), attento a ricostruire persino i movimenti di scena –, solo nelle ultime due sezioni si incontrano i pannelli più esemplari e paradigmatici per comprendere il senso più vero dell’Atlante, quelli dedicati al concetto di Pathosformel o al tema della ninfa. L’obiettivo di Warburg era quello di indagare la fortuna di immagini cariche di contenuto, tramandate prima di tutto dalla civiltà greco-romana e reimpiegate in epoche e culture diverse per veicolare spesso (non sempre) le stesse energie; l’Atlante non poteva allora che essere un’opera aperta, e i curatori (per una volta) avevano tutte le ragioni per provare a far dialogare non solo le opere studiate da Warburg con le ‘opere’ di Warburg (i pannelli) ma anche con altre opere del nostro tempo in cui si sente ancora l’eco di quelle formule di pathos che ossessionavano Warburg (letteralmente: lo studioso fu internato dal 1918 nel sanatorio di Kreuzlingen). Perfette, in questo senso, le grandi opere grafiche di Kentridge del 2014-’15, ricollegabili al fregio effimero sull’argine del Tevere, capolavoro intimamente warburghiano, con i suoi cortocircuiti tra memoria collettiva e immagini fotogiornalistiche e cinematografiche.

il «Narcisso», statua parte del gruppo dei Niobidi, Firenze, Galleria degli Uffizi

Altre scelte sembrano meno riuscite: il bellissimo trittico di Mirga-Tas, pur appartenendo originariamente a un complesso direttamente ispirato dall’Atlante della Memoria, e pur messo in dialogo con l’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano che lo ha ispirato, appare troppo lontano (anche fisicamente) dal nucleo più vivo della mostra, e finisce per galleggiare da solo; la perfezione neoclassica della Sala della Niobe non andava turbata con l’installazione video di Kluge. La natura aperta dell’Atlante, poi, non doveva offrire «la possibilità di ricomporre una o più storie entro scenari liberi, purché vasti» esponendo disegni e incisioni del Rinascimento che non erano stati inseriti nei pannelli di Mnemosyne, come invece ha fatto Marzia Faietti (autrice di ben tre saggi, e citatissima in bibliografia, laddove specialisti di Warburg come Cieri Via e Pinotti non sono stati affatto coinvolti nel gruppo di ricerca).

La mostra si chiude con un emozionante accostamento, che davvero sarebbe piaciuto a Warburg, celebrato anche come padre ideale della Global Art History: accanto alla replica di Baccio Bandinelli dal Laocoonte – un’opera feticcio dello studioso – è esposto un vaso pueblo decorato con serpenti (cugini di quelli che stritolano il sacerdote troiano e i suoi figli) appartenuto a Warburg, che già nel 1896 aveva compiuto un viaggio nel Nuovo Messico, dove venne a conoscenza del rituale del serpente. Quella cerimonia religiosa sarebbe stata oggetto della conferenza con la quale nel 1923 avrebbe salutato i medici e gli ospiti della clinica di Kreuzlingen, in una incursione ancora una volta sorprendente – ma anche commovente per le implicazioni personali di un uomo che si liberava dai propri demoni – nei territori dell’antropologia e della storia delle religioni; una riconferma della modernità, ma soprattutto unicità, di Warburg.

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