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A sinistra del Pd girandola dei candidati

A sinistra del Pd girandola dei candidati

Elezioni Per le amministrative di Roma non basta «unirsi contro il grande nemico». Per essere credibili bisogna rendersi riconoscibili, alternativi: Grecia e Spagna insegnano

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 12 marzo 2016

Grande è la confusione sotto il cielo della politica locale. Massima a sinistra. La determinazione con la quale Renzi sta imponendo i suoi candidati per le prossime elezioni amministrative, a Roma, a Milano, a Napoli, scatena acute contraddizioni, non solo all’interno del suo partito ma anche nel campo alla sua sinistra, che vive una delicata fase di mutamento. Al di là di come andrà a finire – se ci sarà o no una candidatura alternativa a Sala a Milano, chi affronterà a Roma Giachetti e Raggi, se il Pd a Napoli si spaccherà o meno – le vicende di queste settimane ripropongono ancora una volta il tema di cosa sia o cosa debba essere lo spazio politico della sinistra-sinistra (adopero questa formula in mancanza di meglio).

A Milano, Roma e Napoli si danno tre versioni diverse dello stesso dramma. La sofferta, ma non smentita, continuità tra la candidatura iperenziana di Sala e l’esperienza della giunta Pisapia; l’affollarsi a Roma di profili molto diversi di una possibile candidatura autonoma di sinistra; l’ennesimo pasticcio delle primarie che, a Napoli, spinge il Pd alla rottura non su questioni politiche ma su irregolarità procedurali (Bassolino e Valente essendo, politicamente, la stessa cosa, e lo stesso Bassolino non occupando la posizione che fu di Cofferati in Liguria un anno fa). Devono far riflettere, soprattutto, l’orientamento della sinistra di governo milanese (Sel + la sinistra interna al Pd) e la grande confusione romana, con la possibilità che, in tale confusione, uomini come Marino o Bray, cioè esponenti a tutt’oggi del Pd, possano rappresentare, non delle ragionevoli candidature di compromesso, ma direttamente il campo della sinistra-sinistra.

Moltissimo resta da fare per dare un volto sufficientemente riconoscibile a questo campo, prima ancora che al partito che dovrebbe rappresentarlo: la mancanza di un’autonoma proposta a Milano e l’eccesso di proposte a Roma sono sintomi della difficoltà a dare soluzione a questo problema. E’ evidente infatti, dalla prospettiva offerta da questa contingenza elettorale, cosa impedisca questa maturazione: il fatto che sulla coerenza del profilo culturale e programmatico (se non vogliamo dire ideologico) del nuovo soggetto in formazione prevalga il riflesso condizionato della ricerca spasmodica della candidatura più «efficace», quella capace di mettere d’accordo se non tutta almeno la gran parte della classe politica, e di raccogliere, in teoria, il massimo dei consensi in una competizione maggioritaria e personalizzata. Pochi fanno attenzione, invece, al fatto che le candidature non sono intercambiabili, che Marino e Bray da una parte e Fassina dall’altra significano (o dovrebbero significare) cose molto diverse, che le loro candidature evocano scenari politici non necessariamente compatibili, e che tentare di ricomporle in nome di una precaria intesa antirenziana sortisce l’effetto di renderle meno credibili, esasperandone il tratto politicistico.

Questo cocktail micidiale – occorre unirsi contro il «grande nemico», ma se a unirsi sono attori troppo differenti le ragioni dell’unione si rivelano incomprensibili o pretestuose, come fu per gli schieramenti antiberlusconiani – può essere evitato, ora e in futuro, se, una volta per tutte, si avvia a scioglimento il nodo di fondo: come archiviare la sinistra novecentesca e crearne una all’altezza delle sfide poste dall’egemonia neoliberale? Archiviare la sinistra novecentesca corrisponde a operazioni diverse a seconda dei contesti, ma il caso greco, quello spagnolo, persino quello inglese, senza considerare la prima stagione di questi tentativi, in sud America, mostrano che è possibile e che, per riuscire (o almeno provarci), occorrono gesti di effettiva discontinuità culturale, e rotture politiche. In Italia la rottura politica deve avvenire, come è finalmente chiaro da qualche tempo, rispetto al Pd, la discontinuità culturale rispetto invece a quella confusa miscela di governismo, di liberismo temperato, o di riformismo pallido, che fu l’ulivismo, fenomeno politico che non sarebbe mai nato se non si fosse formato il blocco berlusconiano, che mai è stato capace di contrapporre a quest’ultimo una visione del mondo davvero alternativa, se non forse sul piano della cultura delle regole, e che infine ha fallito rispetto alla sua unica, vera ragion d’essere, sconfiggere Berlusconi e il suo schieramento (suicidatosi senza aiuti esterni).

La cosiddetta sinistra Pd (ma anche una parte di Sel) è ciò che resta di questa superata stagione. Risulta evidente allora che, in Italia, la sinistra che vuole rinascere, e affrancarsi dal senso comune neoliberale che ha dominato il settore sinistro dello schieramento politico fino ad oggi, deve di necessità darsi un profilo coerente, percepibile non solo nelle assemblee che solennemente sanciscono i Valori, ma nelle scelte politiche quotidiane.

La logica del compromesso è consustanziale alla politica, ma va gestita da una posizione riconoscibile, e chi la occupa ha bisogno della massima credibilità. I dirigenti Pd impegnati in una estenuante, e il più delle volte incomprensibile, guerra di posizione al loro segretario (e cofondatore, con loro, del Pd) non sono i soggetti più adatti a svolgere questo compito.

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