Visioni

A Santarcangelo una piazza sensibile dove la corporeità si intreccia con le lotte

A Santarcangelo una piazza sensibile dove la corporeità si intreccia con le lotteUna foto di scena di «Ensaio para uma cartografia» di Monica Calle

A teatro Un nuovo direttore per la cinquantaduesima edizione del festival, il curatore polacco Tomasz Kirenczuk. Grande attenzione al femminile e ai temi della nostra contemporaneità

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 16 luglio 2022
Gianni ManzellaSANTARCANGELO DI ROMAGNA

L’Italia ripudia la guerra, dice lo striscione appeso alla parete delle scuole Pascucci, in faccia alla piazza. Santarcangelo ci accoglie con le parole su cui si fonda la nostra costituzione. Parole dure, per niente rituali, e sarebbe bello che non restassero l’espressione di una volenterosa utopia. C’è dell’altro. Sulla piazza Ganganelli, da cinquant’anni ormai la piazza del «teatro in piazza», è cresciuta una larga tavola rotonda. Cornice non solo simbolica di uno spazio di dialogo in cui possono confrontarsi alla pari idee anche molto distanti, ispirata agli «accordi della tavola rotonda» che nella Polonia di Solidarnosc avviarono nel 1989 la transizione a una faticosa democrazia. E pazienza se qualcuno da questa tribuna si fa promotore di una «cancel culture» che dell’ascolto rappresenta proprio la negazione.
Il festival ha da quest’anno un nuovo direttore, il giovane curatore polacco Tomasz Kirenczuk, e dunque ci si chiede quale festival ha in mente la nuova direzione, sotto il titolo Can you feel your own voice, dove l’inglese si suppone voglia sottolinearne la dimensione internazionale piuttosto che l’adesione acritica agli sbandierati valori occidentali. Diremmo un festival molto attento ai temi sensibili dei tempi che stiamo vivendo, anche per risonanza mediatica, dal mescolarsi delle culture all’incontro delle diversità, dalla lotta alle diseguaglianze ai problemi dell’accoglienza, dalle lotte femministe a quelle di genere e per i diritti che si portano dietro. Come non essere d’accordo.

DIFESA dell’ambiente e delle popolazioni indigene convergono nell’oscurità di Altamira 2042, opera seconda della brasiliana Gabriela Carneiro da Cunha dedicata ai fiumi del suo paese. In questo caso il fiume Xingu nella foresta amazzonica, dove è in costruzione una grande diga destinata a sconvolgere la vita degli abitanti. Lo spettacolo è in realtà un rito sciamanico inscenato dall’autrice in mezzo agli spettatori che siedono ai suoi piedi per terra, fra suoni di acqua e di strada emessi da tanti altoparlanti a led luminosi. Poi la performer esce da buio, nuda ma armata di un lungo coltello, per evocare la leggenda della bambina uccisa trasformata in serpente. Oppure indossa sulla fronte un proiettore che getta sulle pareti le immagini del fiume e di uomini intenti a picconare la diga fino a farla crollare in un boato di acqua che si libera.
Grande attenzione al femminile, in tutte le declinazioni che il termine può assumere, ovviamente anche le più aperte e indefinite. E a prevalere è sempre la dimensione del corpo, a cominciare dai lavori più piccoli come il solo dell’esile Catol Texeira, che si muove in mezzo agli spettatori ondeggianti; o quello un po’ pretenzioso di Annamaria Ajmone; o ancora la danza parlata di Stefania Tansini, costruita sul suono delle parole che lei stessa sussurra.

PIÙ COMPIUTA la creazione della lisboeta Monica Calle in scena con altre dodici donne in Ensaio para uma cartografia. Arrivano con i loro abiti multicolori e con gli strumenti nelle custodie, viole violini violoncelli. Ma subito se ne sbarazzano, degli abiti, e per due ore resteranno lì così, sul palco. Serrandosi in gruppo, provano fino allo sfinimento un passo di ballo sulle note del Bolero di Ravel continuamente interrotto dalla voce del direttore d’orchestra. Oppure riprendono gli strumenti per provare a suonare malamente l’allegretto della settima sinfonia di Beethoven. Non sono musiciste e nemmeno danzatrici, ciò che conta non è la maestria ma, come in una celebre creazione di Jan Fabre, la resistenza messa alla prova. E un po’ per solidarietà, si resta lì fino alla fine.
Delude invece Commune della polacca Maria Magdalena Kozlowsa per cui ci si era spostati nel rinato teatro Galli di Rimini. Eppure l’onirico inizio aveva incuriosito con le tre performer dal viso nascosto sotto una orientaleggiante maschera clownesca a discettare dell’infanzia in un paese dell’est e di una nonna comunista. Ma poi lo slittamento nella musica lirica come sostitutivo della rivoluzione proprio non tiene. «Opera to the people», campeggia sullo striscione srotolato alla fine. Decisamente non regge il confronto con le parole della nostra costituzione.

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