La redazione consiglia:
M. Night Shyamalan nell’incubo infinito di Waynard PinesTutti i film di M. Night Shyamalan sembrano cercare e raccontare la stessa cosa, con una precisione delicatamente ossessiva: il sesto senso (titolo del suo terzo film), ovvero quel senso che oltrepassa i cinque conosciuti, che ci parla dell’insoddisfazione di ogni spiegazione (a partire da quella narrativa), di ogni segnale visibile, di ogni realtà umanamente conoscibile. Non viene mai nominato, a ben guardare. Ogni volta si manifesta in situazioni solo apparentemente diverse, come uno specchio rotto le cui schegge vengono ogni volta ricomposte in modo diverso.
In Bussano alla porta è lo shining della realtà catastrofica di cui conosciamo bene lo spettacolo televisivo (dagli aerei che cadono dal cielo – in un evidente eco dell’attacco alle torri gemelle – allo tsunami, dalla pandemia agli incendi devastanti provocati da fenomeni atmosferici estremi).Tutto è mobile, incerto, fragile nello stile del regista. Niente è come sembra

PER EVITARLA, dovremmo morire, non basta chiudere gli occhi, non serve isolarsi (come in The Village). Un sesto senso che si declina attraverso l’empatia, in quel labirinto che è la realtà visibile in cui viviamo, dove ogni cosa è connessa, ogni essere è parte in causa di una lotta tra forze che si rivelano sempre altro da come appaiono. Non serve rifugiarsi dietro le nostre certezze, sembra dirci ogni volta Shyamalan. Non c’è rifugio. Niente, dunque, è come sembra, a partire dai quattro ’cavalieri dell’Apocalisse’ che minacciano la coppia di papà con la loro figlia adottiva in vacanza in una casa isolata della campagna americana.

Sembrerebbe la situazione tipica di un horror canonico. Eppure gli intrusi qui non sono assassini, non sono torturatori, sono messaggeri di una «visione», inevitabilmente catastrofica, che annuncia un già visto, incarnando il paradosso che accompagna il cinema dalla sua nascita. Sono la morte al lavoro (era del resto il soggetto principale di Old, per fare un esempio recente, è il motore della strepitosa serie creata da Shyamalan The Servant). Un lavoro che prevede una sua ritualità (hitchcockiana) che genera la tensione necessaria affinché il cinema possa esistere, che celebra un gioco le cui regole rimangono invisibili, che rilancia il mistero in cui sono immerse tutte le immagini, a dispetto di ogni illusoria trasparenza e di ogni forma di illusione razionale.

TUTTO È MOBILE, incerto, fragile, nel cinema di Shyamalan. L’essenziale rimane fuori campo (o è visibile unicamente attraverso un riflesso, come gli alieni di Signs). Forse è per questo, per questa sua mancanza di assertività e di «visibilità», che da dopo Il sesto senso in poi i suoi film hanno conosciuto quasi sempre una considerazione critica modesta e una risposta di pubblico tiepida. Non è abbastanza spettacolare, né abbastanza consolatorio, non «conclude», rimane aperto all’improbabile, all’invisibile, all’inconoscibile.
Bussano alla porta del resto più che un film horror è un film sull’orrore in cui viviamo, sull’invisibilità spaventosa di quest’orrore, sulla parte che di questo orrore non si manifesta pur essendo sotto gli occhi di tutti, riguardandoci tutti, catastrofi noi stessi, in balia di quella catastrofe permanente che è la vita.