Era il 13 settembre 1922. E se è vero che le potenze occidentali uscite vincitrici dalla Grande guerra avevano fatto promesse spericolate alla Grecia; che i Giovani Turchi, dopo aver stabilito la nuova capitale a Ankara, stavano costruendo la nuova Repubblica, guidati dal nativo di Salonicco – città che passò dagli ottomani ai greci soltanto con la «riconquista» del 1912 – Mustafa Kemal, detto Atatürk, e che tale repubblica non prevedeva la presenza di altri se non i turchi, pure se la presenza di tali genti fosse attestata in Anatolia da millenni: non i greci, non gli armeni, vittime di genocidio (oggi in Turchia è vietato dalla legge anche solo menzionarlo), non gli ebrei, e così via; se è vero che il capo della Grecia di allora, Eleftherios Venizelos, al quale oggi sono intitolate strade, statue, piazze e persino l’aeroporto di Atene, come si confà a un padre della patria, inseguiva la sua megali idea, un farneticante piano di dominio greco delle due sponde dell’Egeo; e che il «grande gioco» degli Alleati non comprendeva nient’altro che censimenti, confini, zone franche, protettorati; ebbene, ciò che resta cento anni dopo è il racconto delle case bruciate, il sangue di morti a centinaia di migliaia, milioni di famiglie sradicate dalla propria vita e dalla propria terra.

Ricorrono, in questo settembre screziato dalla guerra, cento anni da quella che per la Turchia è La Vittoria, e per la Grecia è La Catastrofe: entrambe riassunte nell’evento storico del Grande incendio di Smirne del 13 settembre 1922.

Camminando oggi sul lungomare della città costiera, che dal Pireo si può raggiungere con due giorni di navigazione via Lesbo e Ayvalik, è impossibile immaginare cosa dovesse essere prima del 1922. Campeggia una statua di Atatürk, in veste marziale (ogni città della Turchia è tappezzata, su bandiere, monete, quadri, foto, cartelli stradali, bicchieri, delle sue mutevoli icone: qui in eleganti abiti borghesi occidentali, lì in tenuta tradizionale con tanto di fez, qui vestito da marinaio, lì da cavaliere). Il suo dito punta verso il mare, come a indicare la strada di ritorno all’invasore. Solo che insieme all’esercito greco, sbarcato in Anatolia per realizzare la grande idea e sbaragliato dalle armate turche, furono ricacciati via anche i cittadini non turchi che vivevano da tempo immemore a Smirne come nel resto dell’Asia minore.

I mikroasiates (così venivano e vengono chiamati i greci dell’Asia Minore) erano oltre due milioni, forse tre: cittadini dell’Impero ottomano, bilingue, che furono cacciati e rispediti alla «madrepatria», la Grecia, che contava allora su una popolazione di cinque milioni di persone: uno sconvolgimento demografico immane, che portò, oltre al disagio sociale e ai lutti, anche a una faticosa, ennesima rinascita della cultura greca, grazie all’integrazione di quei nuovi cittadini, carichi di storia, cultura, nuove lingue, nuove usanze, e una tradizione musicale che si diffuse e contaminò indissolubilmente quella preesistente.

Ritmi che dovevano avvolgere le strade di Smirne, fino ai primi del Novecento: oggi squallidi palazzoni e ristoranti mediocri ne impediscono la figurazione anche solo immaginaria. Qui visse brevemente, fino ai fatti del ‘22, con la sua famiglia di mikroasiates, la scrittrice Didò Sotirìu (1909-2004), cui toccò in sorte di scrivere in greco il romanzo più letto e celebrato su quel passaggio storico, Matomèna chòmata (letteralmente «terre sanguinanti») che oggi Crocetti edita con il più delicato titolo, già scelto per l’edizione inglese, Addio Anatolia (traduzione di Maurizio De Rosa, pp. 308, euro 18). Il libro è narrato da Manolis, un giovane dell’Asia minore che lungo il suo cammino di pace, guerra e fuga disperata incontra, e fa parlare per sua voce, personaggi che restituiscono almeno una parte di quel mondo perduto: «Anche se la lingua che parlavamo al nostro villaggio era il turco, dalle nostre parti di turchi non ce n’erano. Tutti i giorni contadini turchi affollavano il nostro mercato, dove vendevano legna, carbone, pollame, kaymak, uova, formaggio e ogni altro ben di Dio, e compravano nelle nostre botteghe quello di cui avevano bisogno. Poi la sera tornavano ai loro villaggi, e qualcuno restava a dormire in casa di amici. Mangiavano alla nostra tavola e dormivano nei nostri letti». E lo stesso Manolis aggiunge: «Da sempre Smirne era la fortezza inespugnabile della grecità, il suo incrollabile caposaldo. I turchi la chiamavano Gâvur Izmir perché la consideravano la “città degli infedeli”. Per noi invece era la nostra capitale, allegra e piena di vita; profumata di gelsomini e amante della libertà».

Se quasi da ogni angolo della città è stata oggi cancellata la traccia della presenza greca, non si può dire che la Turchia contemporanea abbia chiuso con il passato. Ancora le isole del Dodecaneso, appartenenti alla Grecia ma situate a pochissime miglia dalla costa turca, danno la scusa a Recep Tayyip Erdogan, ciclicamente, per minacciare l’antico «nemico». Il capo di stato turco ha celebrato il 1922 gridando in pubblica piazza: «Grecia, la vostra occupazione delle isole non ci preoccupa. Quando sarà il momento, faremo ciò che è necessario. Potremmo arrivare una notte. Grecia, guarda la storia, torna indietro nel tempo. Se si va abbastanza lontano, il prezzo sarà pesante. Abbiamo una cosa da dire: Ricordatevi di Smirne».

È difficile trovare oggi sopravvissuti alla Catastrofe che possano «ricordarsi di Smirne». Ed è molto difficile che Erdogan abbia letto la Sotirìu, nonostante il libro abbia avuto ampia diffusione anche in Turchia. Del resto, programmare per un intero popolo l’elenco delle cose da «ricordare» e di quelle da rimuovere ex lege deve essere un impegno faticoso.