Alias Domenica

Zumas, le ragazze inquiete dell’Oregon

Zumas, le ragazze inquiete dell’OregonLouise Bourgeois, A l’infini, part., 2008-’09, The Easton Foundation, DACS

Narrativa americana Nell’immaginaria, ordinata città di Newville Leni Zumas ambienta questa distopia (divenuta però attuale sotto Trump) sul corpo femminile, sulla maternità e sull’aborto: «Orologi rossi», da Bompiani

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 8 luglio 2018

Scriveva trent’anni fa Margaret Atwood che tutta la narrativa nasce da una domanda, secondo lei sempre la stessa. E se? Naturalmente, aggiungeva, la sostanza di quella domanda cambia di libro in libro. E se John ama Mary? E se John non ama Mary? E se Mary viene divorata da uno squalo enorme? Ma anche: e se i marziani invadono la terra? Qualunque sia l’oggetto della domanda che il narratore fa a se stesso, questo rimane indubbio, il suo romanzo dovrà rappresentare una risposta. A proposito dell’allora piuttosto recente e ormai molto famoso Il racconto dell’ancella, poiché di sé e di quel libro sta parlando, Atwood spiega poi di essersi fatta una domanda semplice: e se accadesse proprio qui? E se qualcuno negli Stati Uniti decidesse di prendere il potere per imporre un regime totalitario? Quali condizioni gli sarebbero più favorevoli, quali slogan proporrebbe, quale bandiera sventolerebbe per attirare almeno una parte della popolazione? La risposta che Atwood ha dato nel romanzo, lo sappiamo, riguarda la libertà delle donne e il dominio esercitato dagli uomini sul loro corpo. Per quanto non si tratti di una risposta semplice, oggi purtroppo non si direbbe neppure così fantascientifica.
Ancora meno surreale, per niente futuribile appare al lettore l’Oregon molto poco femminista in cui l’americana e apertamente femminista Leni Zumas edifica l’immaginaria città di Newville che fa da sfondo al suo magnetico Orologi rossi, pubblicato in lingua originale all’inizio di quest’anno e ora tradotto per Bompiani da Milena Zemirra Ciccimarra («Narratori Stranieri», pp. 392, € 18,00). Ha detto Zumas di avere cominciato a lavorare al libro – l’unico finora uscito in italiano ma per lei il terzo dopo la raccolta di racconti Farewell Navigator (2008) e il precedente romanzo The Listeners (’12) – parecchio tempo prima del secondo mandato di Barack Obama e delle elezioni che hanno portato al potere Donald Trump. Adesso definirebbe la vicenda narrata in Orologi rossi meno inverosimile, anche meno ironica di quando ha iniziato a progettarla. Non potrebbe il governo degli Stati Uniti varare un emendamento sullo stato di persona che conferisce a ogni ovulo fecondato il diritto costituzionale alla vita? Non potrebbe discendere da questo emendamento che l’aborto è un crimine e la fecondazione in vitro impraticabile? Non potrebbe un cosiddetto Muro Rosa impedire l’accesso al Canada di tutte le americane che intendono abortire? In questo universo così ordinato Leni Zumas ambienta la sua apparente distopia sul corpo femminile e sulla maternità e sul diritto che ogni donna ha di scegliere come abitare con il proprio corpo lo spazio della propria esistenza.
«Una pulsazione biologica che inonda le sue vie sanguigne con il messaggio Fai un’altra te stessa! Ripetere, non migliorare. All’antica pulsazione non importa se lei fa qualcosa di buono in questa breve vita – per esempio, se pubblica un meraviglioso libro su Eivør Mínervudottír che darebbe alla gente piacere e conoscenza. La pulsazione vuole semplicemente una nuova macchina umana che possa, a sua volta, produrne un’altra» riflette una delle quattro protagoniste del romanzo che ne rappresenta anche l’autoriale fuoco prospettico. Insegnante di storia al liceo, il suo percorso si intreccia per quella primitiva pulsazione con la vicenda di un’allieva abbandonata dalla madre, di un’amica che ha interrotto gli studi per i figli, di una bizzarra guaritrice, indomabile e temuta come le streghe mandate un tempo al rogo nella vicina Salem. Anche con la biografia che sta scrivendo, dedicata a un’eccentrica, sconosciuta esploratrice polare. Leni Zumas, che vive in Oregon e insegna all’università di Portland, ma che prima della maternità è stata batterista in un paio di gruppi punk, segue il ritmo di quella pulsazione per accordare le voci delle sue ragazze in uno stile che è insieme magmatico e salmastro, liquido, selvaggio, stregonesco.
Il flusso uterino e oscuro del sangue si fonde in Orologi rossi al moto ipnotico del mare aperto evocato con tanta insistenza nella trama e riprodotto dalla sua sperimentale partitura: spezzando il racconto in quadri che offrono di volta in volta la prospettiva delle singole protagoniste, alternando al testo i materiali della fittizia biografia di Eivør Mínervudottír, spingendo l’enunciato ad avanzare per ellissi secondo l’ondoso avvicendarsi degli eventi psichici, legando ogni sequenza dentro una spirale vorticosa di rimandi e iterazioni, accentuando la temperatura lirica dell’atmosfera narrativa Zumas compone un romanzo vistosamente attratto nella tonalità espressiva, per quanto prossimo ai motivi di Margaret Atwood, dalla Virginia Woolf di Gita al faro e soprattutto delle Onde. Libro, ha detto Leni Zumas in un’intervista, che parla in primo luogo «della voce e del sé e della scissione da sé», ma che anche insegna secondo lei come voci diverse possano insieme «diventare un coro e creare un’armonia». La stessa armonia che le ragazze inquiete di Orologi rossi ora inseguono, forse raggiungono nella sua pagina così lunare e fluida, salina, classicamente elettrica.

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