Zone di frontiera e quella parola orientata a scovare la bellezza
NARRATIVA «My favorite things», un romanzo di Sergio Baratto per minimum fax
NARRATIVA «My favorite things», un romanzo di Sergio Baratto per minimum fax
È verosimile che nella Milano dei primi anni cinquanta, lì dove il centro urbano confinava con una periferia ancora verde e selvatica, potesse trovarsi un ordigno inesploso fra quelli sganciati dagli alleati una decina d’anni prima. Forse è addirittura vero, se crediamo a un inserto cronachistico del narratore di My favorite things di Sergio Baratto (minimum fax, pp. 249, euro 18,00) che rimanda a un microfilm del Corriere nella biblioteca Sormani dove si legge di un tragico incidente non lontano dagli stabilimenti della Tecnomasio. Di certo quella zona oggi del tutto urbanizzata intorno a Porta Romana aveva all’epoca, in pieno boom, l’atmosfera di una zona di frontiera vagamente sovratemporale, giacché la «steppa» in cui si svolge la scena madre del romanzo richiama quella, già post-industriale e distopica, cui era intitolato il precedente lavoro, datato 2016, di questo autore estraneo alle frenesie editoriali.
DEL RESTO è in questa stessa dimensione ucronica che ci attira My favorite things, che nel titolo omaggia John Coltrane e la sua versione sciamanica del celebre brano interpretato da Julie Andrews, e dove la stessa scena madre è innanzitutto l’incontro con una «strozzatura della clessidra», o un cunicolo spazio-temporale. Data l’organizzazione un po’ quantistica e un po’ musicale del materiale narrativo, la penna di Baratto è poi tutta orientata a scovare la bellezza oltre il male, la luce nel buio o, se si preferisce, il nucleo adamantino degli affetti al di là del dolore e della condanna a morte che la vita esegue a volte troppo presto, ingiustamente. E dopotutto non è un obiettivo troppo diverso da quello che lo stesso Coltrane, mosso da un anelito religioso oltre che spirituale, si diede in quella sublime suite di preghiera ed elevazione.
All’inizio di tutto ci sono cinque amici a un passo dalla pubertà, i loro ultimi giochi all’aperto sul finire dell’estate, poi l’incontro misterioso che conduce alla scomparsa di Enrico, soprannominato il «bruco», nomen omen di chi al tunnel cronotopico era destinato. Franco invece, il riflessivo, è quello che ne esce traumatizzato, ma lo scopriamo a poco a poco. È lui infatti il protagonista, di cui seguiamo due tracce alternate: in un presente vicino, a fine febbraio 2016, alle prese con un corpo senile che dà segni allarmanti e soprattutto con le ultime ore di vita di Amina, la piccola nipote consumata da un cancro; e nel passato, a più riprese, partendo dal 1962.
DOPO L’INCONTRO di dieci anni prima con il «mostro», Franco si è ritirato in una sorta di non-vita, corazzato, al riparo da pene ulteriori. Il post-traumatico però non sente ragione e riappare non solo nei sogni, ma anche nell’incontro casuale e decisivo di Franco con la sua futura passione: al concerto di Coltrane il 2 dicembre di quell’anno al Teatro dell’Arte. In compenso gli toccherà un incontro che ha del miracoloso, fuori dal teatro, dove rimedia pure uno zippo del genio del jazz.
Non c’è però solo Franco, di cui pure nella parte centrale intitolata «Hellhole» si ripercorre la vicenda professionale di ingegnere minerario in Turkmenistan – dove la sua azienda decide di impiantare una perforatrice proprio nel punto in cui, al di qua della fiction, nel 1971 si aprì nel terreno l’enorme voragine di gas infuocati poi chiamata «porta dell’inferno», e dove il talento dell’autore nel descrivere i luoghi si combina a una vis affabulatoria che fonde Storia e oralità. C’è anche sua figlia, Simona, di cui seguiamo la resa al lutto imminente e a un senso di colpa che cerca una fonte, fino a risalire a un episodio a margine di Genova 2001; conosciamo così anche il suo, di passato, le marche generazionali di questo, gli ideali di lotta presto sedati, il disincanto e il ripiego nel privato.
E CI SONO IL MARITO DI LEI, duro fino all’autonarcosi, e la sorella di Franco, madre di Simona, che abbandonò la figlia per tornare a far la hippy a Berlino Ovest. Ma c’è anche un T-Rex di plastica, che ha forse la parte più struggente nel finale, dopo il ritorno del rimosso, dove la sfida con la morte è wormhole e duello fantastico in uno, concrezione visionaria del connubio di lotta e amore che Coltrane ha voluto esprimere, e Baratto con lui.
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