Visioni

Zombie e indipendenti. «One cut of the Dead»

Zombie e indipendenti. «One cut of the Dead»

Maboroshi Quando sembrava che il tema degli zombie fosse stato esplorato in lungo in largo e che non ci fosse più nulla di nuovo da esplorare, specialmente al cinema, arriva dal […]

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 15 giugno 2018

Quando sembrava che il tema degli zombie fosse stato esplorato in lungo in largo e che non ci fosse più nulla di nuovo da esplorare, specialmente al cinema, arriva dal Giappone un film che contribuisce a dare nuova linfa al genere.

 

Già passato al Far East di Udine dove ha vinto il Gelso d’Argento ed in altre manifestazioni festivaliere in giro per il mondo, One Cut of the Dead, questo il titolo del lungometraggio, è un lavoro a bassissimo budget diretto dall’esordiente Shinichiro Ueda, autore anche del soggetto e della sceneggiatura.

Il film si apre in un edificio abbandonato dove una troupe sta girando un film di zombie, una vecchia fabbrica che, secondo alcune voci e leggende, in passato è stata luogo di esperimenti militari. Nel set irrompe uno zombie e così comincia una storia dentro alla storia, girata in un unico piano sequenza di 37 minuti, dal punto di vista tecnico, ma non solo, un meccanismo riuscitissimo che si incastra alla perfezione con il resto del film. La pellicola è infatti costituita fondamentalmente da tre parti, quella centrale è forse quella meno riuscita, si sposta un mese prima degli avvenimenti del film e segue le vicende familiari del regista, della moglie, attrice nel film, e della figlia.

 

One Cut of the Dead si chiude con una svolta metafilmica assai riuscita che ribalta le aspettative, ma che è allo stesso tempo una divertita e divertente parodia dei film a basso budget giapponesi. I quasi cento minuti del lungometraggio passano in un batter d’occhio ed i primi trenta, quelli girati in un unico piano sequenza sono frenetici e girati con foga e gusto per l’intrattenimento. Ueda è davvero molto bravo a divertire lo spettatore con uno stile a metà tra i found footage e i vecchi tokusatsu eiga, c’è infatti un ritorno ad un uso intelligente di effetti speciali quasi amatoriali, anche per necessità produttive, che riescono a rendere al meglio grazie alle scelte registiche ed alla bravura del cameraman Tsuyoshi Sone.

 

Il film, ancor prima della sua uscita nelle sale giapponesi, ha avuto anche il merito di contribuito a lanciare un dibattito sullo stato attuale della scena indipendente giapponese. One Cut of the Dead infatti è stato realizzato con un budget di circa 20 mila euro dalla Enbu Production e parzialmente finanziato in crowdfunding, ma gli attori non professionisti che vi hanno partecipato, per lo più studenti, hanno addirittura pagato per apparire nel film. Sui social il produttore Koji Ichihashi ed il regista Ueda stesso hanno manifestato la loro gioia per il successo di Udine ed espresso la loro contentezza per un film che, con un budget così basso e con una troupe di quasi sconosciuti, è quasi un miracolo che possa competere con le grandi produzioni internazionali.

 

Parole dettate dall’euforia e dalla genuina sorpresa del momento che però sono state smontate da un post del regista Koji Fukada, una delle voci autoriali più interessanti degli ultimi anni nell’arcipelago. Secondo il regista di Harmonium e dell’ultimo The Man from the Sea infatti, pagare quattro soldi gli attori o farli pagare per partecipare ad un film non cambia di certo la situazione del cinema indipendente del Sol Levante, anzi la aggrava e la solidifica.

 

Purtroppo le parole di Fukada sono veritiere, spesso il cinema a bassissimo costo giapponese approfitta della smania di partecipare di molti giovani, sia come attori, sia come aiuto registi o quant’altro, insomma «il fa curriculum» è una malattia virale che invade anche la settima arte nipponica, un po’ come gli zombie, a metà tra l’orrorifico ed il comico, del film stesso.
matteo.boscarol@gmail.com

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