Lo Zio Vanja di Cechov è un testo di quelli che hanno davvero alzato il sipario sul ‘900. Non solo per calendario, ma perché la materia teatrale coltivata al Teatro d’Arte di Mosca ha cambiato linguaggi e finalità dell’arte della rappresentazione. Materiale quindi delicato di cui, dopo poco più di un secolo, ci si aspetta ogni volta con curiosità di misurarne il peso specifico nell’oggi. Simona Gonella, regista di questa versione appena realizzata da Elsinor al teatro Fontana (in coproduzione col Metastasio di Prato), non si fa mancare il coraggio, e spinge la vicenda della famiglia protagonista al diapason delle sensibilità di ogni personaggio.

LO ZIO VANJA (interpretato da Woody Neri) è quello che si tira più indietro, probabilmente perché è il più consapevole della situazione e delle soluzioni amare verso cui si indirizza. Il professore e sua moglie (lui vedovo della sorella defunta di Vanja, e quindi coerede, ma risposato con una passionale giovin signora straniera) portano in quel tranquillo tran tran di provincia russa una scossa decisamente forte, da cui pochi usciranno integri. La regia punta molto sul lato «femminile» dell’invasione, mentre il marito si diletta di una creatività vuota e noiosa che gli altri non può che annoiare. Lei, l’intrusa (per cui la regia ha voluto una interprete davvero straniera) gioca coi destini degli altri come fosse appunto un gioco. Lo stesso Vanja sente un brivido per lei, ma soprattutto il dottore che quotidianamente si reca in visita nella proprietà. Ma del dottore è più che invaghita (se non promessa) Sonja, figlia del professore e quindi nipote di Vanja, che in quel medico di provincia ripone la speranza di riscatto di tutta la sua vita. Quella tragedia, qui colorata e appuntita, non finisce ovviamente bene, ma gli attori sono compatti nel dare anima e fuoco ai propri personaggi. Una menzione particolare alla bravissima Anna Coppola, che passa da Mamàn a Balia semplicemente mettendo o togliendo il tipico copricapo russo. Un esempio di misura e di stile.