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Zima, l’inverno russo è un inferno di ghiaccio

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Cinema Al Bari Film Fest il film di Cristina Picchi, la lotta per la sopravvivenza nel freddo surreale

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 4 aprile 2014

Il BIF&ST di quest’anno, che si apre sabato prossimo con l’anteprima di Noah, il film di Darren Aronofsky, ospita acnhe quest’anno Arcipelago/ConCorto, il concorso cortometraggi che si presenta come una sezione autonoma e indipendente, interamente a cura della direzione di Arcipelago – Festival Internazionale di Cortometraggi e Nuove Immagini. A «giudicare» i titoli ci sarà una giuria del pubblico (presieduta dal produttore Nicola Giuliano), e i film verranno poi rirproposti a Roma, in occasione della 22a edizione di Arcipelago, il prossimo autunno.
Tra i titoli c’è un’opera già nota per il passaggio in molti festival internazionali e i premi importanti vinti, come il Pardino d’Argento allo scorso festival di Locarno. Si tratta di una prova, come dire, «ispirata». Se si vuole, un documentario lirico. Ma senza «ismi». Si chiama Zima, una parola russa che vuol dire inverno (un inverno giocoforza diverso da qualsiasi altro). L’autrice però è italiana, e si chiama Cristina Picchi. Giovane di talento, studi prima in Italia, poi a Londra (Goldsmiths), arriva a filmare la stagione invernale della Russia del Nord e della Siberia grazie al programma Cinetrain (www.cinetrain-project.com), iniziativa russa che recupera la lezione dell’ «ultimo bolscevico» Aleksandr Medvedkin, e dunque del viaggio in treno come occasione di esplorazione e scoperta. Così è stato per lei.
Siamo in zone della Russia fra le più impervie e meno ospitali. Le temperature sono gelide, proibitive. Qui l’inverno è come se fosse un inferno, ma di ghiaccio: quantomeno è così che racconta la voce fuori campo di un immigrato africano all’inizio del film, in raccordo – quasi in associazione – con l’arrivo di un treno. La sua è (stata) una lotta per la sopravvivenza. Di seguito, il film tocca tutta una serie di situazioni – attività lavorative e riti sociali – lungo l’itinerario percorso. Sono situazioni in grado di alludere – come sorta di correlativi oggettivi – a quella che si potrebbe definire l’ «esperienza del limite» intrinseca alla vita delle popolazioni in loco. C’è per esempio la stazione meteorologica di Uzhur, nel Krasnoyarsk Krai, e la testimonianza di un addetto alle rilevazioni. C’è il cantiere navale di Murmansk e la testimonianza di un lavoratore del posto. Ci sono poi sequenze dedicate: al bagno ghiacciato per la ricorrenza dell’Epifania ortodossa, una tradizione religiosa (celebrata anche da non credenti); al Lago Baikal ghiacciato, alla pesca lì possibile (un frammento di prossimità tra vita e morte). C’è successivamente una seconda voce fuori campo, accompagnata da una soggettiva che ci pone su un treno, di nuovo. È in movimento. Un momento speculare – nella forma e complementare – nel significato – a quello introduttivo.
Ciò detto, il lavoro di Cristina Picchi risulta esemplare. In pochi minuti, pochi «tratti», non solo dimostra una indubbia capacità di osservazione e di sintesi descrittiva ma anche altro, cioè una cultura visiva non banale, tra suggestioni a loro modo surreali e tendenze verso l’astrazione.Lontana da possibili, grandi modelli di riferimento, come il Marker di Lettre de Sibérie (1957). Il finale poi sembra far sfumare tutto in sogno. Ricorda T. S. Eliot, rimanda a certi suoi versi poco noti: «The stillness, as a Chinese jar still/ Moves perpetually in its stillness.» Non è poco.

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