Zhu Shengze, la Cina «attraverso lo schermo»
Intervista Un incontro con la regista di «Present. Perfect», oggi in concorso al festival Filmmaker di Milano. «Negli ultimi anni il live-streaming è diventato una fiorente industria, ci sono centinaia di migliaia di anchor e milioni di spettatori, sperano di conquistare la fama»
Intervista Un incontro con la regista di «Present. Perfect», oggi in concorso al festival Filmmaker di Milano. «Negli ultimi anni il live-streaming è diventato una fiorente industria, ci sono centinaia di migliaia di anchor e milioni di spettatori, sperano di conquistare la fama»
Una ragazza parla della sua vita, piccoli problemi quotidiani, speranze. Intanto lavora rapidissima alla macchina da cucire: è dentro un’industria tessile e si rivolge, collegata a internet con il suo smartphone, agli utenti che guardano il suo live-stream. Siamo in Cina nel 2017, il momento di massima espansione di questo fenomeno: 422 milioni di utenti guardano e fanno in prima persona questi show, si collegano attraverso la rete con un mondo di sconosciuti. Sono gli anchor – il termine con cui si definiscono le persone che si «mostrano» da dietro lo schermo – i protagonisti di Present. Perfect della regista cinese Zhu Shengze, che verrà presentato in concorso a Filmmaker Festival oggi al cinema Beltrade. Oltre alla giovane operaia c’è un ragazzo che balla felice per strada senza alcun senso del ritmo, un trentenne che un problema genetico ha condannato ad avere per sempre l’aspetto di un bambino, un uomo affetto da focomelia che con disarmante disponibilità e buonumore risponde a tutte le curiosità di chi gli scrive. È l’immagine di un Paese brulicante di vita, desideri, sogni e umanità – visto dai margini, attraverso gli occhi di outsider. Un mondo parallelo a cui si può accedere attraversando, come se fosse lo specchio di Alice, la superficie di uno schermo.
«Present. Perfect» è un lavoro di ricerca e montaggio di found footage proveniente da internet. Come è nato il progetto?
Non avevo mai visto prima uno show in live streaming, solo qualche filmato diventato virale sui social in cui gli anchor facevano delle cose bizzarre, oppure attività estreme. Proprio questo ha attirato la mia attenzione: nel 2017 un ragazzo è caduto dalla cima di un grattacielo mentre faceva un live-stream. Volevo capire cosa spinge le persone a rischiare la propria vita: ho iniziato a guardare gli «show» degli anchor e ho scoperto un mondo che esiste solo su internet, accessibile unicamente attraverso lo schermo di un computer o di uno smartphone. Un mondo folle, a volte perfino brutale ma al contempo creativo e pieno di vita. Mi è sempre interessato guardare la realtà attraverso gli occhi degli altri, e la comunità del live-streaming consente proprio questo dato che riunisce le prospettive di persone diverse tra loro e provenienti da posti e situazioni altrettanto varie. Per questo non penso alla materia del film come found footage: lo vedo più come un film collettivo, «girato» da tante persone.
Delle migliaia di anchor attivi online, lei si è principalmente concentrata su degli outsider. Perché?
Negli ultimi anni il live-streaming è diventato una fiorente industria. Ci sono centinaia di migliaia di anchor e milioni di spettatori. Per questo la maggior parte degli anchor vuole diventare una celebrità: speranodi conquistare la fama e arricchirsi. Ma ho presto capito di non volermi concentrare su quella tipologia di persone: non mi interessa la mania del live-streaming, come ci si possono guadagnare dei soldi. È anche un luogo di ritrovo online per tantissimi «netizen» cinesi, specialmente per coloro che sono meno socialmente attivi nel mondo reale. Non è la fama o il desiderio di diventare ricchi a spingerli a condividere la propria vita nel mondo virtuale, ma solo il desiderio di rapportarsi a persone come loro. È stato questo gruppo a catturare il mio interesse: le loro sono performance davanti a una telecamera, ma anche dei tentativi di condividere i momenti più intimi della loro vita con degli sconosciuti, con delle persone che offline non incontreranno mai, per il semplice fatto che non hanno nessuno con cui parlare nel mondo reale che li circonda. Gli anchor con delle disabilità temono gli incontri dal vivo, uno di loro durante uno show ha spiegato che per lui è più semplice parlare rivolto a uno schermo piuttosto che a un’altra persona. Anche quelli che non hanno delle disabilità sono in difficoltà con la comunicazione. Alcuni invece vivono in posti lontani e disconnessi dal resto del Paese, mentre altri sono prigionieri di lavori umili e senza prospettive. All’inizio seguivo gli show di almeno un centinaio di anchor, ma dopo qualche mese mi è stato chiaro su chi focalizzarmi: il criterio più importante è stata la forte personalità di tutti i «protagonisti» di Present. Perfect.
Montare centinaia di ore di show deve essere stato un processo lungo e complicato…
È stata in effetti la sfida più grande ed è cominciata ancora prima del montaggio vero e proprio: i live-stream non vengono salvati online, se ne avessi perso uno non avrei mai più avuto modo di recuperarlo. Per cui la scelta di quale show seguire era già una selezione, il primo passo nel montaggio del film. Per quanto riguarda invece la struttura, non mi interessava tanto l’idea di raccontare una storia, quanto di far vivere agli spettatori un’esperienza. I filmati degli anchor annullano le barriere fisiche e spaziali: è come essere con loro, qui e ora. Anche se mostravano solo la loro vita quotidiana, senza che accadesse nulla di spettacolare, trovo che la «banalità» avesse un suo fascino, e che osservandola se ne potesse cogliere la bellezza e il mistero. L’unica struttura presente nel film è la divisione in capitoli, ma senza titoli: non volevo costringere quello che accade sullo schermo dentro un «tema».
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