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I vetri di Zecchin, semplice nobiltà in colori diafani

I vetri di Zecchin, semplice nobiltà in colori diafaniVittorio Zecchin, vasi di vetro trasparente, 1921-’25

A Venezia, Fondazione Cini, una mostra sull'arte del vetro di Vittorio Zecchin Dopo il momento «viennese», il maestro muranese torna alla purezza dei modelli greci e rinascimentali

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 15 ottobre 2017

Dopo la mostra dedicata a Paolo Venini per Le Stanze del Vetro, risultava un passaggio dovuto la ricognizione su Vittorio Zecchin (Murano, 1878-1947), direttore artistico della fornace nata nel 1921 dal sodalizio imprenditoriale tra l’avvocato milanese e l’antiquario Cappellin e durata fino al 1925, quando tra i due si consumò la separazione e l’artista muranese decise di seguire quest’ultimo ancora per un anno. L’esposizione all’isola di San Giorgio – l’ultima in ordine di tempo della serie dedicata all’arte vetraria veneziana ed europea, ordinate da Pentagram Stiftung e Fondazione Cini – prende in esame proprio il periodo delle creazioni di Zecchin per la V.S.M. Cappellin Venini & C., azienda fondata nel 1921 dalle ceneri della fornace del maestro Andrea Rioda, già esecutore di copie dei vetri dei Grandi Maestri.
In laguna, infatti, già dal primo decennio del Novecento una generazione di artisti – oltre a Zecchin, Casorati, Cadorin, Gino Rossi, Arturo Martini, Marussig, Wolf-Ferrari – è intenta a seguire lo spirito secessionista e simbolista attraverso una rivisitazione in senso purista delle forme. Nell’arte del vetro significa non «cincischiare ornamenti inutili – come Roberto Papini scrisse nel ’23 visitando la Mostra delle Arti Decorative a Monza –, non complicare quel che dev’essere coraggiosamente semplificato».
Al vetro Zecchin giunge dopo un difficile percorso nel tentativo di elaborare un personale linguaggio pittorico che origina negli anni di formazione all’Accademia di Belle Arti di Venezia e transita dal 1909 per le sue prime esposizioni a Ca’ Pesaro, rinvigorito dalla conoscenza diretta della pittura di Klimt e Jan Toorop, della lettura di «Ver Sacrum» e «The Studio». Nel 1914, con il suo amico Wolf-Ferrari – spiega nel catalogo della XI Biennale –, osservando la fabbricazione di murrine gli nacque l’idea di «connettere i pezzi di vetro, formarne ornamentazioni e figure, come per i vasi così anche per le lastre, evitando le commettiture di piombo». La policromia di queste prime piccole lastre si rifletterà nei colori smaltati dei grandi pannelli decorativi, per esempio quelli che comporranno il ciclo pittorico de Le Mille e una notte (1914) per l’Hotel Terminus.
Tuttavia a Zecchin non interessa la pittura da sola senza le arti sorelle. Per lui vale la definizione di Tausendkünstler che Hermann Bahr diede a Koloman Moser, tradotto: «artista dai mille talenti». Quando dopo la fine della Grande Guerra, nel 1919, riapre Ca’ Pesaro – lo ricorda in catalogo (Skira) Marino Barovier, con Carla Sonego curatore della mostra veneziana – Zecchin «non presentò dipinti, bensì dieci arazzi, quattro ricami e dieci vetri smaltati e dorati». Emula e interpreta così, nelle arti decorative, non solo lo stile, ma anche il modello produttivo straniero, in particolare quello viennese (Wiener Werkstätte). Da quando la Biennale veneziana calamita dal 1895 con regolarità l’arte straniera, accadrà così anche per altri artisti (Galileo Chini, Vittorio Grassi), mentre dall’Italia questa riceverà eccellenti spunti per la sua ispirazione: eloquente in questo senso il viaggio di Klimt a Ravenna e la presenza delle sue opere a Venezia (1910) e a Roma (1911). Tuttavia, riguardo all’arte vetraia di Zecchin, «nato tra i vetri e i maestri vetrai» (Nico Striga), l’influenza sulla sua pittura sarà di sostegno.
La stagione che però la mostra racconta è altra da quella che la precede: quella dei dipinti e i vasi «a mo’ di murrina» e del fastoso bizantinismo. Le prime coppe e vasi, compostiere e bomboniere, servizi da tavola, candelieri e lampadari, che Zecchin disegna per la Cappellin Venini & C. sono all’insegna dell’assoluto rigore formale, dalla linea controllata, armoniosa e delicata, e soffiati sotto la guida del maestro vetrario Nane Patàre nei colori diafani del verde, del giallo, del blu e dell’ametista: «colori da sogno» (Cappellin), con riflessi iridescenti ottenuti esponendo l’oggetto ancora caldo a vapori di stagno e titanio. L’impulso arriva dalla conoscenza della tradizione vetraria rinascimentale rivisitata con l’obiettivo di affermare una coscienza decorativa autonoma, svincolata dai giochi degli stili del passato, mentre nell’arte vetraria degli anni venti permanevano «i virtuosismi superflui d’impostazione tardo ottocentesca» (Barovier).
Per Zecchin i dipinti del Tintoretto, di Holbein o del Veronese sono una ricca fonte di spunti, com’è il caso del vaso chiamato proprio Veronese, fedelmente riprodotto dal particolare dell’Annunciazione del pittore veneto. Nel segno delle forme vascolari greche sono invece i vasi denominati «con manici». Tra questi il modello detto Libellula è il più vistoso con le sue esagerate anse laterali, ma il repertorio è ricchissimo di esemplari dove le anse sono invece sei o quattro, più piccole, ricurve, ad anello, a nastro o dalla linea squadrata, applicate su corpi privi di piede oppure svasati (il vaso Holbein ripreso dal Ritratto di Georg Gitze del pittore tedesco). Il rigore geometrico e astratto che connota i vetri «senza decorazioni», quasi delle forme archetipiche, lo ritroviamo anche negli oggetti «con decorazioni» applicate a caldo. I motivi sono gocce, perle, rosette o nastri e fili provenienti dalla tradizione muranese. Zecchin considerò il vetro una «materia preziosa» con la quale raggiungere una «semplicità nobile».

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