Zbigniew Herbert, il morso del tempo sul corpo del dolore
Poesia Finita l’epoca della censura, le ultime tre raccolte del poeta polacco «L’epilogo della tempesta» toccano spesso corde etiche e metafisiche, sollecitate da una religiosità inquieta
Poesia Finita l’epoca della censura, le ultime tre raccolte del poeta polacco «L’epilogo della tempesta» toccano spesso corde etiche e metafisiche, sollecitate da una religiosità inquieta
Già noto sotto le etichette di poeta della cultura classica, umanistica, mediterranea, e di poeta civile del coraggio, della lotta e della resistenza al regime totalitario, maestro di distacco e ironia, lo Zbigniew Herbert proposto nell’antologia appena edita da Adelphi, L’epilogo della tempesta Poesie 1990-1998 e altri versi inediti (a cura di Francesca Fornari, pp. 192, euro 20,00) è in parte nuovo al pubblico italiano. Il libro mette insieme una scelta di poesie tratte dalle ultime tre raccolte uscite in vita con un cospicuo numero di «opere sparse», datate sin dai primi anni cinquanta, che Herbert per varie ragioni non ritenne opportuno includere in raccolte. Il gioco a cui la curatrice invita il lettore è dunque duplice e ha come punto di riferimento unico lo Herbert maggiore, cui viene naturale raffrontare sia la sua produzione estrema sia quella sparsa, coeva e consonante a molte delle poesie già note dalle tre edizioni esistenti nel panorama italiano: l’antologia Rapporto dalla città assediata (Adelphi 1993), l’omonima raccolta edita da Scheiwiller nel 1985 e la più recente Rovigo edita dal Ponte del Sale nel 2008. È un gioco che, come vedremo, ha un prezzo.
Le poesie degli anni novanta introducono nell’opera di Herbert una vena nuova, personale, elegiaca ed esistenziale, sempre più centrata sui temi della sofferenza e della morte, che è come il morso spietato del tempo sul corpo perfetto di una scultura antica: «la mia vita/ dovrebbe descrivere un cerchio/ chiudersi come una sonata ben scritta/ e adesso vedo chiaramente/ un istante prima della coda / gli accordi lacerati / parole e colori assortiti male/ strepito dissonanze/ le lingue del caos», confessa in una delle tre poesie intitolate Breviario. Come mostra in modo evidente la prima parte dell’antologia adelphiana, la voce dell’io lirico si fa nel corso degli anni novanta sempre più individuale, diretta: «La mia anima è triste» scrive nel medesimo Breviario, mentre in Un cuore piccolo si paragonava a un «ragno grigio» che siede «solitario/ sul tronco di un albero tagliato/ nel centro stesso/ della battaglia dimenticata» e intesse «riflessioni amare/ su una memoria troppo grande/ su un cuore troppo piccolo» perché incapace fino in fondo di provare pietà, di far dimorare in sé la «nobile bellezza, il fascino dell’esistenza/ e forse persino il bene». E anche la distanza tra la maschera del Signor Cogito, cui ancora saltuariamente Herbert ricorre, e il vissuto dell’autore si assottiglia, fin quasi ad aderire perfettamente al suo volto.
Si ricorderanno, a cogliere la svolta, le parole con cui Iosif Brodskij presentava Herbert all’inizio degli anni novanta: «pochissime sue poesie si riferiscono alla sua vita, ai suoi casi privati; sono pochissime quelle che cominciano con «Io», quasi nel medesimo torno di tempo in cui Herbert stesso dichiarava in un’intervista a Newsweek: «Scrivevo poesie serie, tragiche, e adesso scrivo sul mio corpo, sulla malattia, sulla perdita del pudore».
Il «fuggitivo dall’utopia», come lo aveva definito Stanislaw Baranczak in un bel saggio uscito in inglese nel 1987, è ora «un uomo impalato» devastato dal dolore – come si legge nel Palo – tragicamente colpito dal Fato non più per mano della Storia, il che aveva i suoi ironici vantaggi almeno di posizione («la storia mi confortava/ io combattevo la violenza/ e il Libro diceva/ – era lui Caino» scrive in Un cuore piccolo), ma con un’inesorabile malattia a cui invano cerca di trovare un senso. E proprio i perché interrogativi – dlaczego in polacco – con cui si chiudono sospensivamente diverse poesie, tra cui Rovigo («In compagnia di quali campane appari Rovigo/ Ridotta a una stazione una virgola una lettera cancellata/ niente soltanto una stazione – arrivi – partenze/ e perché penso a te Rovigo Rovigo»), costituiscono un tratto distintivo delle ultime raccolte, uno snodo semantico, insieme ad altri termini chiave come trwac «durare, perdurare, resistere» e cierpiec «patire, soffrire» insieme al suo derivato cierpliwy «paziente».
Il cambiamento di linguaggio è, d’altra parte, un portato anche della fine del «secolo breve», come nota – non senza ironia – nel brano immediatamente precedente della medesima intervista: «La letteratura dell’emigrazione ha perso la sua funzione principale: la difesa della libertà di pensiero. Oggi in Polonia purtroppo non c’è la censura, mentre io avevo elaborato un determinato stile di scrittura per aggirare i divieti dei censori».
Mentre l’attualità politica degli anni novanta trova posto in una pubblicistica battagliera e controversa per le posizioni provocatorie che Herbert spesso vi assume, le sue ultime tre raccolte poetiche toccano piuttosto corde etiche e metafisiche, sollecitate da una religiosità inquieta e dubitante sotto il segno di Tommaso (si veda la poesia omonima), combinandosi in un’altissima testimonianza di quella esperienza esistenziale che consiste nella attesa della morte. «Io chiedo/ se allora/ ci accoglierai di nuovo/ perché sarà come tornare alle ginocchia dell’infanzia» scrive nella Preghiera dei vecchi, introducendo quest’immagine tenerissima e fiduciale delle ginocchia (la cui origine nell’immaginario di Herbert possiamo rinvenire in La nonna) come approdo finale quasi apocatastatico. Un’attesa scevra da qualunque ansia thanatofobica o anche thanatofilica, vissuta con l’animo sereno di chi vede la nave ormai prossima al porto e riflette su ciò che è stato, con tono pacato, ma non per questo privo di tragicità: «ma perché/ la mia vita/ non è stata come i cerchi sull’acqua/ un inizio che cresce/ risvegliato dentro profondità infinite/ si dispone in anelli falde gradini/ per spirare sereno davanti/ alle tue imperscrutabili ginocchia» (Breviario); e soprattutto con la consapevolezza di creare la sua opera ultima. Anni prima il Signor Cogito, meditando sulla sofferenza, suggeriva di accettarla «senza falso pudore,/ ma anche senza superbia» e, se possibile, «trasformare la materia della sofferenza/ in qualcosa o in qualcuno». Dare una forma alla sofferenza, trasformarla in metafora, in arte: questo è il nucleo di molte poesie dell’ultimo Herbert.
La tempesta della vita è ormai all’epilogo e l’anima del Signor Cogito da tempo gli siede in spalla, pronta a spiccare il volo, si legge in Il Signor Cogito. Posizione attuale dell’anima. La memoria torna a luoghi e persone care: a Leopoli, «città che non esiste su alcuna mappa/ del mondo»; alla nonna d’origine armena, enciclopedia dell’infanzia; ai compagni d’armi dell’Esercito Nazionale traditi dalla storia ai quali il poeta ha «dato la parola» cui tiene conradianamente fede, e ai quali pensa anche scrivendo una delle poesie più belle dell’intera antologia, Il prugnolo, con i suoi «fiori bianchi innocenti» che sbocciano «ai bordi delle strade» sfidando il persistente gelo dei timidi preannunci di primavera polacchi e sono perciò «come i volontari giovani e belli/ che muoiono il primo giorno di guerra nelle nuovissime uniformi/ come le stelle della poesia spentesi prematuramente/ come una gita scolastica portata via da una slavina». E indugia sugli oggetti, tanti «oggetti concreti/ che stanno silenti nello spazio», ai quali nell’orizzonte assiologico di Herbert spetta un posto simbolico singolare, in quanto sicuri nella loro dimensione reale, non soggetti all’umana mutevolezza, sempre uguali a se stessi, costanti, fedeli, apprezzati e ammirati pur se inseriti in una dimensione sofferenziale come quelli enumerati in un altro Breviario: «Signore, Ti rendo grazie per le siringhe con l’ago spesso o fine come un capello, per le bende, per ogni tipo di cerotto, per l’umile impacco, grazie per la flebo, i sali minerali, le cannule, e soprattutto per le pasticche di sonnifero dai melodiosi nomi di ninfe romane,/ che sono buone perché chiamano, ricordano, sostituiscono la morte».
Il bilancio finale è affidato all’ultima breve poesia della raccolta del 1998, Tessuto, dove compaiono, sussurrate sull’asse metaforico della vita come trama e come nave, quattro parole-chiave: fedeltà, attesa, memoria, coscienza.
Resterebbe da dire qualcosa delle «opere sparse». Ma è difficile mettere a sintesi ciò che per sua stessa natura è sparso. Ecco appunto il prezzo cui accennavo all’inizio, che sta però non solo nella natura ibrida che queste poesie (ben trentuno su ottantadue) imprimono all’antologia, ma soprattutto nel paradosso per cui circa i due terzi (e parliamo di duecento poesie) della produzione dello Herbert maggiore, quello delle sei raccolte anteriori agli anni novanta, continuano a restare ignoti ai lettori italiani. Lo si intenda come un auspicio per future imprese editoriali.
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