Nell’estate 1998 Zarina Bhimji scatta alcune fotografie in Uganda. È la prima volta che torna nel suo Paese, abbandonato nel 1974 all’età di undici anni per approdare con la famiglia in Inghilterra, dove studierà al Goldsmiths’ College. Sono costretti a partire due anni dopo il colpo di Stato del generale Idi Amin Dada che, nel 1972, dà un ultimatum di tre mesi alla popolazione asiatica per lasciare l’Uganda. Una comunità storicamente presente sin dal 1896, quando l’impero britannico aveva bisogno di manodopera per costruire la linea ferroviaria, è cancellata dalla memoria con un decreto. Bhimji compie un sopralluogo nei luoghi frequentati dal padre in vista di quello che diventerà uno dei suoi film più conosciuti, Out of Blue (2002), girato in 16 mm e da allora presentato come installazione video a un canale. Commissionato da Okwui Enwezor per la Documenta 11, è ora esposto nella sua personale da Fruitmarket a Edimburgo (Flagging it up, fino al 28 gennaio 2024).

Prima della partenza dall’aeroporto fantasma di Entebbe, si succedono paesaggi esterni e luoghi abbandonati: baracche militari, prigioni, spazi domestici e coloniali. Che si tratti di fotografie, video o installazioni foto-testuali, le immagini di Bhimji pullulano di interni di case abbandonate. Carta da parati scrostata, mobili negli angoli, oggetti quotidiani rimasti al loro posto e ricoperti da una pellicola di polvere come in una natura morta, finestre aperte con le tende agitate dal vento, l’impressione tangibile che altri elementi siano stati volutamente cancellati. Una casa posseduta? Sì, ma a patto che a possederla siano le cose stesse, in assenza di presenza umana, che sia un essere in carne e ossa o un ectoplasma. Sono le cose a evocare le esistenze trascorse tra quelle mura, le vicende violente e i traumi dell’Africa post-coloniale.

In Out of Blue Bhimji trova un modo personale di restituire la desolazione degli spazi domestici. Non c’è spazio per l’inchiesta, la cronaca, l’illustrazione, non c’è volontà di ricostruire i fatti in modo obiettivo. Si procede, al contrario, per intensità, con un registro anti-narrativo risolutamente poetico: «Attraverso il visibile è importante per me rimanere allegorica, anche se tratto questioni politiche. Mi interessa un universo immaginario in cui i sistemi isterici del colonialismo possano essere conservati ed esaminati», come afferma in un’intervista del 2010.

Le immagini di Out of Blue, proiettate nei black box dei musei, sono sospese e coinvolgenti, ambigue e irrisolte, con la loro lentezza lontano dal montaggio filmico. E lo sguardo partecipe e lenticolare dell’artista vigila affinché le presenze registrate dal suo obiettivo non siano oggettivate. Interessata al paesaggio africano quanto alla pittura di Caspar David Friedrich, coglie negli spazi chiusi una distinta pittoricità: poco importa che la pittura non rientri tra i suoi medium. Decisiva è infatti la luce degli interni, un’attrice tanto materiale quanto l’atmosfera si fa palpabile; decisivi i suoni (e non il linguaggio), con la loro presenza quasi scultorea. Nei suoi film l’architettura non si risolve mai nell’edificato.

Bhimji si distingue così da quegli artisti che eleggono l’autobiografia a soggetto principale della loro opera, o che la risolvono nella mera illustrazione di questioni identitarie. Assieme emigrata dall’India, espatriata dall’Uganda e rifugiata in Inghilterra, Bhimji non produce un’arte della diaspora. E ogni lettura focalizzata esclusivamente sulla biografia (una donna asiatica di origini africane immigrata in Inghilterra) o sui generi esistenti (arte femminista o black art) mi ricorda quanto Paul Valéry scriveva a proposito della poesia nei Cahiers: un verso che produce un senso esatto, che si può ovvero riformulare con un’altra espressione o rappresentazione, è abolito dal senso.