Se la prima poesia di Andrea Zanzotto assomiglia a quella di un paguro che si è rintanato entro l’alcova sicura di un apparente tardo-ermetismo (l’immagine appartiene a Fernando Bandini), la pubblicazione de La Beltà, nel 1968, ha sancito l’inappartenenza del poeta veneto a qualsiasi tendenza lirica novecentesca. Per l’operazione di scavo abissale nelle profondità del linguaggio che la caratterizza, la poesia zanzottiana non assomiglia che a se stessa. Tuttavia, si potrebbe pensare che proprio l’assoluta originalità di Zanzotto e la sua riconosciuta difficoltà pongano paradossalmente dei limiti all’eredità della sua esperienza poetica, isolandola più di altre entro i confini di una «letteratura nazionale»: lo speciale numero (2023/1) che la rivista di poesia comparata «Semicerchio» ha dedicato a Zanzotto e le lingue altre (Pacini Editore, pp. 160, € 25,00) smentisce tale preoccupazione, dimostrando come la lirica zanzottiana sia in grado sempre più di farsi conoscere all’estero (suggerendo così come il rapporto fra Zanzotto e le altre letterature continui oltre la scomparsa del poeta, nutrito dei versi di Hölderlin, Rimbaud, García Lorca…).

Curato da Luigi Tassoni e Sara Svolacchia, «Semicerchio» affronta appunto il tema degli scambi fra Zanzotto e l’Europa secondo una duplice prospettiva, indagando da un lato l’intertestualità della lirica zanzottiana nei confronti dei modelli (specialmente francesi e tedeschi: Valerio Magrelli inaugura il dossier con un saggio dedicato all’influenza di Mallarmé e Rimbaud; Tassoni e Tommaso Gennaro guardano rispettivamente all’influsso di Hölderlin e Celan), e dall’altro fa il punto sull’attuale fortuna di Zanzotto all’estero, fra ricezione e traduzione delle sue opere.

Non solo il Linguaggio è al centro della poesia zanzottiana, ma anche «l’attenzione a linguaggi differenti (…) da sempre è il connotato evidente» dell’opera di questo autore, del quale si ricorderanno gli Haiku for a season come immediata riprova di quanto affermato dai curatori nell’Introduzione. Il saggio di John Welle («Duty Free») va però ben oltre questo singolo libro, interrogandosi sul rapporto del poeta con l’inglese, mediato da altre letture (Foscolo, Eliot, Pound…), mentre Alberto Russo Previtali riflette sulla concezione zanzottiana della lingua francese.

Francese è anche la traduzione di Elleboro: o che mai?, offerta dal gruppo CIRCE (Centre Interdisciplinaire de Recherche sur la Culture des Échanges), che ragionando sui testi in équipe offre una versione il più possibile prossima all’originale, partendo dal lavoro interpretativo, così come in francese sono le traduzioni zanzottiane firmate dalla compianta Jacqueline Risset, riprodotte nello stesso dossier per la cura di Svolacchia.

In un discorso pronunciato alla fine degli anni novanta presso l’Università Ca’ Foscari, Zanzotto aveva definito l’Europa un «melograno di lingue». Soffermandosi sulla pratica della traduzione, aveva poi dichiarato: «io non sono mai stato affezionato al concetto di definitività del testo poetico. Pronunciare il ne varietur mi turba». La stessa indefinitezza, lo stesso carattere «aperto» appartiene ai testi zanzottiani: ai lettori il compito di esplorarne ancora le inesauribili potenzialità.