Yvonne Rainer, puro pionierismo corporeo
In mostra Al Museo MAMbo di Bologna una personale dedicata alla danzatrice, coreografa e filmmaker. La post-modern dance, la lotta contro la convenzionalità, la ripetizione dei gesti quotidiani, gli esercizi filmati
In mostra Al Museo MAMbo di Bologna una personale dedicata alla danzatrice, coreografa e filmmaker. La post-modern dance, la lotta contro la convenzionalità, la ripetizione dei gesti quotidiani, gli esercizi filmati
Nel fiammeggiante scenario avanguardistico Usa degli anni Sessanta, il rinnovamento culturale si è avvicendato attraverso la reiscrizione radicale e la fusione delle discipline. Ad aprire una crepa profonda con la danza del passato, imprimendo il superamento delle convenzioni sceniche fino a farle inverare la post-modern dance è Yvonne Rainer (San Francisco, 1934) di madre polacca e padre italiano, danzatrice, coreografa, performer, filmmaker, poetessa, teorica e attualmente professoressa emerita presso l’Università della California. La sua importanza teorica si fuse magneticamente con la pratica artistica, iniziata con un gruppo informale di danzatori con cui co-fondava il Judson Dance Theater. A lei, divina creatura, è dedicata la mostra Yvonne Rainer: Words, Dances, Films a cura di Caterina Molteni al Museo MAMbo di Bologna (fino al 10 settembre 2023). Nelle sale museali si intercorrono i video sperimentali, materiali di archivio, tra cui i meravigliosi schemi preparatori dei balletti e le partiture per Steve Paxton, i disegni, le poesie e lo screening giornaliero dei suoi film. La sua rivoluzionaria deviazione corporea che è alla base dei Performance Studies, ha contaminato anche la Performance Art che, nonostante i suoi slittamenti, è intrinsecamente saldata ai canoni raineriani. Yvonne si libera dall’influenza strutturale di Cunningham grazie alla scuola di Anna Halprin (insieme a Trisha Brown, Simone Forti) e ispirata anche dalle idee di John Cage, inventa un suo lessico coreografico anti-accademico, sostenuto dal bisogno di ricongiunzione tra arte e vita. Attraverso le sue coreografie, infatti, avveniva l’appropriazione della gestualità quotidiana (dalla strada o dalle mura domestiche, da giochi e balli sociali), il ricorso a danzatori non professionisti, la ripetizione del gesto e del ritmo oltre all’impostazione dell’azione legata al «simil-compito» (task-like).
LA SOTTRAZIONE narrativa, psicologica ed espressiva delle performance si basava su una complessità immaginativa grazie all’utilizzo di oggetti decontestualizzati dal loro uso che disarticolavano lo spazio scenico tradizionale. L’intento di liberare la danza dalla sua convenzionalità è enunciato teoricamente sia attraverso il suo No Manifesto (1964) dove vengono evidenziati gli attributi non associabili alla sua danza: spettacolarità, intrattenimento e finzione «magica» a cui contrapponeva una visione reale, cinetica e ordinaria del movimento. Sia con il saggio A Quasi Survey of Some Minimalist Tendencies in the Quantitatively Minimal Dance Activity Midst the Plethora or an Analysis of Trio A (1968) un resumè delle connessioni tra scultura e danza minimalista, suddivise tra ciò che viene «ridotto» formalmente e ciò che viene «eliminato». La personale raineriana ha il suo incipit, ovviamente, con Trio A (1966) considerato come il paradigma estetico della post-modern dance, pionierismo puro corporeo che all’epoca dirottò la danza nell’iperuranio, in cui la Rainer azzarda movimenti, abbigliamento e scena asciuttissimi sul filo concettuale degli scultori minimalisti, con i quali peraltro collaborava (con l’artista Robert Morris realizzò Column nel 1961). Il percorso prosegue con gli «esercizi coreografici filmati», video in b/n realizzati tra il 1966 e il 1969, considerati riflessioni sul corpo in movimento. Hand Movie (1966) realizzato dalla coreografa, degente in ospedale, in cui è la sua mano ad articolare una semiotica gestuale. Oppure Volleyball (1967) che riprende a camera fissa due gambe che calciano lentamente un pallone, che rotola in un angolo della stanza. Bruce Nauman nei suoi Studio Films ne è stato ampiamente influenzato. Rhode Island Red (1968) è una agghiacciante ripresa all’interno di un allevamento di polli in batteria nel Vermont, mentre Trio Film (1968) è un silenzioso dialogo tra una coppia nuda (Steve Paxton e Becky Arnold) che si passano una palla tra un divano e due sedie.
E poi Line (1969) un esperimento percettivo e prospettico di un oggetto in movimento. Nel 1966 il collettivo dello Judson Dance Theater si sciolse ma nel 1970, insieme a Trisha Brown, David Gordon, Steve Paxton, formò il gruppo Grand Union. Rainer Variations (2002) è invece un documentario realizzato da Charles Atlas con interviste, stralci di film e di performance e prove. Lives of Performers, 1972, è il suo primo film, in cui la danza è lo sfondo di un triangolo amoroso e in cui Yvonne si avvicina alla critica cinematografica femminista dell’epoca.
NELLA SALA delle Ciminiere, vengono proiettati con cadenza giornaliera i suoi lungometraggi, diretti tra il 1974 e il 1996, recentemente restaurati dal MoMA di
New York con il supporto di The Celeste Bartos Fund for Film Preservation. Sono storie autobiografiche e dissertazioni su temi sociali e politici: Film about a Woman Who… (1974); Kristina Taking Pictures (1976); Journeys from Berlin (1971), The Men Who Envied a Woman (1985); Privilege (1990); MURDER and murder (1996). Nel 2015 Rainer ha ricevuto il Merce Cunningham Award dalla Foundation for Contemporary Arts. Mentre il suo ultimo lavoro è Hellzapoppin: What About the Bees? (2022) sulla diseguaglianza razziale negli Stati uniti.
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