Yuliana Ortiz Ruano, una prova letteraria ballabile
NARRATIVA «Febbre di carnevale», il romanzo della scrittrice ecuadoriana edito in Italia da Sur. Domani alla Nuvola (Sala Sirio, ore 16.30) l’autrice sarà in dialogo con Viola Ardone
NARRATIVA «Febbre di carnevale», il romanzo della scrittrice ecuadoriana edito in Italia da Sur. Domani alla Nuvola (Sala Sirio, ore 16.30) l’autrice sarà in dialogo con Viola Ardone
«Amazzoni e artiste»: sin dal titolo dei due volumi da lui dedicati una minuziosa mappatura della scrittura femminile in Ecuador (Amazonas y artistas. Un estudio de la prosa de la mujer ecuatoriana, 1978), è così che Michael Hardcastle presenta le scrittrici, pensatrici e saggiste ignorate per quasi due secoli da una critica e un’editoria saldamente maschili.
La ricerca dell’ispanista statunitense allinea nomi dimenticati, libri sconosciuti, articoli di periodici femministi: tutti gli elementi utili, insomma, a dimostrare, prima ancora che ad analizzare, l’esistenza di una letteratura a lungo trascurata. Ed è proprio il lungo silenzio rotto dalla pionieristica attenzione di Hardcastle a rendere ancor più significativa l’attuale fortuna delle autrici ecuadoriane (tra le tante, Monica Ojeda, María Fernanda Ampuero, Gabriela Alemán, Daniela Alcívar o Gabriela Ponce, tradotte anche in Italia da piccoli editori indipendenti) che, paradossalmente, a volte si affermano in patria solo dopo il successo incontrato in Europa.
SARÀ COSÌ, forse, anche per Yuliana Ortiz Ruano, giovanissima poetessa il cui debutto in prosa è accompagnato dall’edizione italiana del suo Febbre di carnevale (pp. 194, euro 17, pubblicato da Sur e vincitore del Premio Issee per il romanzo d’esordio latinoamericano), in cui rivive la tropicale Esmeraldas che, lontana da Quito, la capitale andina, come dalla metropoli Guayaquil, è una della province più povere e turbolente dell’impoverito e turbolento Ecuador, oggi segnato dalle catastrofiche conseguenze dell’ormai conclusa presidenza di Guillermo Lasso.
Sfondo e insieme personaggio di un romanzo «ballabile», inframmezzato da testi di canzoni che creano una sorta di colonna sonora salsera, Esmeraldas è una presenza densa e palpabile, con i suoi odori grevi, i colori violenti, la gente orgogliosa della propria discendenza africana (e qui non si può non ricordare un’altra autrice esmeraldina, Argentina Chiriboga, che ha preceduto Ortiz nel raccontare la cultura della comunità nera), il costante suono della marimba, lo scalpiccìo di piedi danzanti che si fondono con la voce della bambina Ahinoa, felicemente tradotta in italiano da Marta Rota Núñez (il suo è un vero pezzo di bravura), nonostante la difficoltà di restituire in italiano un discorso ricco di invenzioni e di espressioni locali.
AHINOA RACCONTA, in tono innocente, credibilissimo e sboccato, di una grande casa abitata da una famiglia di donne: la madre, un nugolo di zie, la nonna, le domestiche e una favolosa bisnonna defunta, che scruta le rumorose discendenti da un ritratto appeso alla parete. Gli uomini – il nonno, il padre, lo zio, gli spasimanti occasionali – sono figure di passaggio, presenze instabili che vanno e vengono, sanno di alcol e frequentano femmine sconosciute. Eppure è a uno di loro, il patriarca don Chelo, che bisogna rendere conto, è lui che tra un’assenza e l’altra «rimette in riga» le figlie col frustino, è da lui che, in una notte piena di grida, le zie corrono a salvare la nipotina, immobilizzata dal terrore.
Ahinoa, che si arrampica sugli alberi e osserva il mondo con infinita curiosità, cercando di comprenderlo e interpretarlo, è una bambina felice, o così ci appare per buona parte del romanzo, inizialmente immerso in una luce sfolgorante (anche se l’incipit annuncia la morte di uno zio molto amato, cui la nipote rende omaggio con una danza senza freni), ma che si incupisce con l’avvicinarsi del passaggio dall’infanzia all’adolescenza, quando i mutamenti del corpo la espongono al «terribile amore» degli uomini. Perché, la ammonisce la zia Rita, «un uomo innamorato è capace di fare qualsiasi cosa, di urlare, minacciare, controllare… Dio non voglia, gioia, Dio non voglia che un uomo si innamori di te». E l’amore più terribile, Ahinoa non tarda a capirlo, è quello di don Chelo per le proprie figlie.
ANCHE SE LEI non lo sa raccontare, qualcosa di terribile le accade, e non si tratta delle conseguenze di una dollarizzazione appena avvenuta (origine delle lacrime paterne e delle difficoltà economiche di tutta la famiglia), ma di un abuso che il racconto lascia soltanto intuire, incrociando allusioni, sensazioni e immagini della selvaggia «febbre» carnevalesca, un labirinto di scene via via più angosciose dove la protagonista si perde, come in un bosco orgiastico e musicale.
Febbre di Carnevale è un libro allo stesso tempo gioioso e tragico, in cui il realismo sfuma nell’allegoria e si percepiscono l’ombra dell’incesto, il potere e l’oscurità del desiderio, i misteri e gli umori del corpo, la violenza come parte tangibile della vita quotidiana: temi ineludibili per le autrici ecuadoriane di oggi (ciascuna li elabora alla sua maniera, ma tutte sono consapevoli di vivere in un paese dove il numero dei femminicidi e delle gravidanze precoci è altissimo) e che connotano con speciale intensità la narrativa della più nota tra loro, Monica Ojeda.
Fondata su un orrore esplicito, la sua scrittura ignora i confini tra generi e si alimenta di riferimenti letterari, combinati con i il deep web e il mondo delle creepypasta, com’è evidente nei romanzi Mandibula e Nefando, inseriti nella collana I Selvaggi di Alessandro Polidoro Editore e tradotti da Massimiliano Bonatto, ormai voce italiana dell’autrice. Anche la sua prima raccolta di racconti, Voladoras (pp. 128, euro 15), è fedele al consueto e cupo lirismo dell’autrice, che qui, però, lo accentua con un’immersione nell’oralità, nella mitologia, nei simboli e nei rituali dei popoli originari, riconducendolo a un «gotico andino» già praticato, con toni diversi, dalle boliviane Giovanna Rivero e Liliana Colanzi.
OTTO STORIE in cui il corpo è protagonista (corpo che sanguina, che si trasforma, corpo che sperimenta il dolore e che ricorda vecchie ferite, corpo come campo di battaglia dove si subisce o commette ogni genere di violenza), insieme a figure leggendarie: curanderas che praticano aborti e che prima di uccidere baciano la loro vittima; figure femminili con un occhio solo, che volando penetrano nelle case e svelano disordine e turbamento; streghe capaci di staccarsi la testa dal collo a volontà; uomini-lupo, uomini-condor, sciamani che tentano di stabilire un impossibile contatto tra il mondo di sopra e il mondo di sotto, per resuscitare una figlia adorata.
Ambientati nel paesaggio scabro e atemporale delle Ande, ma anche in quello urbano delle feroci famiglie borghesi così sapientemente disegnate dall’autrice, i racconti, resi ipnotici da una forma che si avvicina alla poesia, appaiono profondamente diversi l’uno dall’altro, eppure si presentano come un corpus unitario, legati come sono da una medesima atmosfera, da uno stile ormai inconfondibile e dall’intrepido tentativo di esplorare il rapporto tra corporeità e linguaggio, di sondare la frattura che li separa e di mettere in luce le ferite di entrambi. Più di ogni altra cosa, Ojeda sembra voler fare della propria scrittura uno strumento che ci impedisca di ignorare tutte le sfumature della nostra oscurità, qualcosa che vive in noi e intorno a noi, ma che, con ostinazione, ci rifiutiamo di vedere.
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