Gene Youngblood ci ha lasciato il 6 aprile di quest’anno. Aveva pubblicato il suo Expanded Cinema nel 1970, non ancora trentenne: un libro imponente, denso, ricco di teorie, di esempi e di immagini, con una introduzione visionaria di Buckminster Fuller: coscienza planetaria, conoscenza umanistica e scientifica fuse in un flusso di consapevolezza; tecnologia come espansione della sensibilità, del pensiero. Di «occhi espansi», riferendosi a uno spettatore diverso, aveva scritto Jonas Mekas; e il termine di cinema espanso girava già fra i cineasti underground. Gene Youngblood lavorava al Los Angeles Free Press, giornale gloriosamente radical e alternativo, e il libro è percorso da istanze che richiamano quella cultura e quel clima fervido e propositivo; ma non è affatto un testo che si tiene al margine o che si limita a perorare genericamente un’espansione della psiche attraverso nuove visioni (e viceversa). Youngblood era un giovane studioso serio e documentato: nel suo testo cita le teorie di Ejzenštejn e di André Bazin, percorre decenni di riflessioni sul cinema, cita le avanguardie e arriva al computer film. Percorre e precorre: giacché quanto lui scriveva del cinema espanso sarebbe diventato poi realtà quotidiana, un’estensione dell’idea di cinema ad altri mezzi, a partire dal video (che aveva iniziato a diffondersi pochi anni prima) fino ad arrivare all’immersività di costruzioni avvolgenti di immagini.

Nei suoi esempi si va dai piccoli videodiari di George Kuchar ai labirinti di schermi delle esposizioni universali (una «spettacolarità» che Youngblood non respinge, perché secondo lui consente nuove visioni a grandi quantità di persone che non frequentano abitualmente le esperienze artistiche innovative); dallo «Stargate Corridor» di 2001 Odissea nello spazio al computer film dei Whitney alle performance multimediali. Youngblood, immaginando «comunità effettive» create dalle possibilità tecnologiche e non da identità famigliari o geografiche, prefigura successivamente le aggregazioni della futura rete delle reti. Le sue idee risentono anche dell’eco ancora potente di Understanding Media: the Extensions of Man di McLuhan, uscito nel 1964: la dimensione planetaria, il paesaggio mediatico, l’attenzione alla sensorialità, un approccio umanistico alla tecnologia. Ma è un’eco espansa, appunto, ai fermenti creativi, alle esplorazioni delle metamorfosi visive, al superamento della dimensione narrativa. E con una valenza politica, con un afflato utopistico che lancia in avanti, e in modo critico, possibili usi diversi dei media.

Expanded Cinema è diventato un classico. Rimasto a lungo accessibile solo in inglese (e la traduzione italiana è arrivata nel 2014, a cura di Luigi Capucci e Simonetta Fadda, CLUEB), il suo impatto è stato subito importante: da noi, nel 1972 ne aveva tradotto un estratto la rivista Filmcritica, e un anno dopo il quaderno del Festival di Pesaro dedicato al video presentava traduzioni di brani; negli anni e nei decenni successivi, Youngblood ha tenuto centinaia di incontri in tutto il mondo e insegnato in varie università. Il mosaico dei brani tradotti si è infittito ovunque, arricchito dai successivi interventi dell’autore, che nel frattempo aveva pubblicato saggi su videoartisti come Bill Viola e la coppia Steina e Woody Vasulka, stabilitasi come lui a Santa Fe in New Mexico, dove Youngblood ha insegnato e vissuto negli ultimi decenni. In Italia, era stato invitato a Roma, da Guido Aristarco e Marco Gazzano, alla Sapienza, nel 1986; Adriano Aprà lo aveva chiamato nel 1989 al Festival di Salsomaggiore, con una rassegna e un incontro; a Pisa per «Ondavideo» nel 1991 aveva incontrato studenti e pubblico, come a Milano – per INVIDEO, nel 1991 e nel 2004.

«Ci sono al momento almeno quattro media con cui possiamo praticare il cinema: il film, il video, il computer, l’olografia; proprio come ci sono molti strumenti con cui possiamo praticare la musica. Naturalmente ciascuno di essi ha proprietà specifiche e contribuisce in modo diverso alla teoria del cinema», aveva scritto nel 1989 (oggi, queste idee tornano nel dibattito sui media, contestate da chi difende specificità e purezza del cinema contro il dilagare delle immagini in movimento ubique e multiformi). Nel 2003, Youngblood mi aveva scritto, rispetto al nuovo libro a cui stava lavorando, che sperava che non fosse limitato a «telecommunication art» o «net art», ma utile a «una comprensione rivista e ampliata della profonda natura dell’arte all’inizio del ventunesimo secolo, e a un apprezzamento più umanizzato, meno tecnologico delle possibilità davvero spettacolari che ci si aprono». Oltre la tecnologia: senza smarrire quella lontana istanza utopistica, e anzi riproponendola nei progetti successivi di Youngblood per eventi di contestazione politica capaci di avvalersi di ogni mezzo, dai più artigianali ai più estesi ed espansi a livello planetario, dalle «biciclette contro Bush» del 2004 a conversazioni planetarie a distanza.