Fra le varie retrospettive che compongono e impreziosiscono l’edizione di quest’anno de «Il Cinema Ritrovato», ci sarà anche uno speciale dedicato a Yoshimura Kozaburo, regista giapponese attivo fra gli anni trenta e gli anni settanta del secolo scorso. La parte della sua produzione presa in esame a Bologna si focalizza su quello che è considerato il suo periodo artistico più florido, gli anni cinquanta, quando il regista lavorò principalmente con lo studio Daiei e la Shochiku. Una conferma di come il decennio in questione (ragionare per periodizzazioni di dieci anni è tanto arbitrario quanto utile) rimanga ancora oggi uno scrigno ricco di sorprese, benché siano stati gli anni in cui il cinema giapponese fu «scoperto» a livello internazionale.

Alla manifestazione bolognese saranno proiettati sette lavori di Yoshimura, recentemente restaurati, incentrati su figure femminili alle prese con i rapidi cambiamenti sociali che hanno plasmato il dopoguerra giapponese. In questo senso, i due lavori più interessanti ed esemplari della retrospettiva, curata da Johan Nordström e Alexander Jacoby, sono forse Itsuwareru seiso (Clothes of Deception) del 1951 e Yoru no kawa (River of the Night) di cinque anni successivo.

Il primo è un lungometraggio in bianco e nero scritto da Shindo Kaneto, uno degli sceneggiatori e registi più importanti della storia del cinema nel Sol Levante e amico e collaboratore in molti lavori di Yoshimura, ambientato in una Kyoto che sta cercando di lasciarsi il tragico passato bellico alle spalle. Questo cambiamento viene raccontato attraverso le vite di due sorelle, quella maggiore, più determinata e pragmatica che lavora come geisha nel quartiere di Gion, mentre la minore è impiegata presso l’ente turistico del quartiere e sogna di sposarsi con l’uomo che ama. Anche se il film si pregia di ottime prestazioni attoriali a tutto campo, la vera star e fulcro attorno al quale gira l’intera narrazione è Kyo Machiko nel ruolo della sorella maggiore.

Un’interpretazione che mette insieme i vari lati del carattere del personaggio in maniera magistrale, selvaggia, spietata sul lavoro e conscia della propria femminilità che usa per guadagnare il denaro necessario per sopravvivere assieme alla sorella e alla madre, la proprietaria di una okiya (casa delle geisha), che secondo lei però è troppo benevola.

Le figure maschili sono qui praticamente assenti e quelle poche che si vedono sono per lo più figure patetiche, caratterizzazione che ritorna spesso in certo cinema giapponese del periodo, ancora fortemente influenzato dalla guerra appena terminata. Altra protagonista del lungometraggio è Kyoto con le sue arti e cultura tradizionale, città che, come afferma uno dei personaggi femminili del film (significativo è che abiti a Tokyo) è stata risparmiata dalle bombe, ma che forse non è stato un bene, in quanto sotto questa patina storica nasconde ancora una forte struttura feudale. Proprio la tensione fra l’attaccamento alle tradizioni, il lavoro della geisha, e la spinta verso la modernità, le aspirazioni della giovane sorella, una tensione che non viene alla fine risolta, dona al film un’ulteriore lettura che lo rende ancora più interessante.

Ritorna Kyoto e ritorna una memorabile figura femminile anche in River of the Night, il vero capolavoro della retrospettiva. Non più una geisha al centro della narrazione, ma una stilista di tessuti e di kimono, interpretata magistralmente da Yamamoto Fujiko, che si innamora di un uomo sposato. Arti tradizionali e moderne qui confluiscono l’una nell’altra, sia nell’elemento narrativo, il personaggio interpretato da Yamamoto frequenta un giovane pittore le cui opere ricordano da vicino Okamoto Taro, sia nelle immagini portate sullo schermo, il paesaggio urbano ed i suoi colori sono la tavolozza con cui Yamaura e collaboratori creano immagini di modernità.

Per questo motivo e per l’indipendenza che caratterizza la protagonista, il film tratteggia un ritratto di donna più sfumato e indipendente rispetto a quello visto in Clothes of Deception, ma non per questo meno divorato dal mal d’amore. Ciò che abbaglia fin dalle primissime scene sono i colori, si tratta infatti del primo lungometraggio non in bianco e nero diretto da Yoshimura che qui usa spesso tessuti colorati e primissimi piani di fiori in maniera intenzionale per mettere in risalto la «nuova» tecnologia, ma che utilizza luci e colori, talvolta quasi in modo espressionista, al servizio della trama.

Due scene su tutte esprimono al meglio questo concetto, in una la conversazione fra la donna e il suo amante viene raccontata visivamente dall’alternanza di due fiori, uno giallo ed uno violaceo, mentre in un’altra, il senso di intimità fra i due in una stanza d’albergo viene espresso attraverso una calda luce notturna di ispirazione quasi fiamminga. In questo senso River of the Night è il perfetto connubio di almeno tre artisti al picco della loro arte, Yoshimura come regista, Miyagawa Kazuo come direttore della fotografia e Tanaka Sumie come sceneggiatrice di una storia viva, quasi proto-femminista e molto attuale ancora oggi.