Yoshida Kiju, il gesto politico di un’immagine aperta
Se n’è andato lo scorso otto dicembre all’età di 89 anni, Kiju (talvolta reso anche come Yoshishige) Yoshida, una delle figure più importanti nel cinema giapponese del dopoguerra. La notizia è stata resa nota da Mariko Okada, moglie e attrice con cui il regista ha formato un connubio artistico fondamentale per lo sviluppo della sua carriera e dei temi che insieme hanno trattato e sviluppato lungo tutta la loro vita. Se il nome del cineasta è conosciuto in patria e all’estero soprattutto per la sua partecipazione a quel «movimento» denominato dai media Nuberu baagu, la nuova onda di registi (Nagisa Oshima, Imamura Shohei, Susumu Hani e Masahiro Shinoda) che ha rinnovato la settima arte del Sol Levante dagli anni sessanta in poi, Yoshida è stato in realtà molto di più. Un acuto pensatore di cinema attraverso il cinema, un teorico che ha anche scritto molto, ed è significativo in questo senso, anche se triste, che se ne sia andato nello stesso anno in cui il cinema ha perso due dei suoi pensatori più importanti e rigorosi come Straub e Godard.
YOSHIDA nasce nella prefettura di Fukui nel 1933 e dopo aver fatto lì esperienza dei bombardamenti aerei americani, su cui ha anche scritto uno dei suoi ultim
i libri, si trasferisce assieme alla famiglia a Tokyo, dove studia lingue e letteratura. La passione per il cinema lo porta però ad entrare nella casa di produzione Shochiku dove, siamo nella seconda metà degli anni cinquanta, comincia a lavorare come assistente alla regia per Keisuke Kinoshita. Nel 1960 Yoshida debutta alla regia con Rokudenashi (Good-for-nothing) e due anni più tardi inizia la collaborazione artistica con Okada in Akitsu onsen (Akitsu Springs), film con cui inizia l’esplorazione delle relazioni di genere, uno dei temi che continuerà ad affrontare, in modi e con esiti diversi, fino alla fine della sua carriera. Insieme alla moglie nel 1966 Yoshida fonda la casa di produzione indipendente Gendai Eigasha, con cui nello stesso anno produce Onna no mizuumi (The Woman of the Lake) e dal 1969 al 1973 una trilogia di lungometraggi dedicati al radicalismo politico giapponese, Erosu purasu gyakusatsu (Eros + Massacre), Rengoku eroica (Heroic Purgatory), e Kaigenrei (Coup d’Etat). Si tratta di uno dei pilastri della settima arte giapponese del dopoguerra: non solo i soggetti dei film sono rivoluzionari o radicali impegnati a distruggere il sistema, ma è la stessa grammatica ed estetica cinematografica usata
da Yoshida ad essere rivoluzionaria. Lo stile attraverso il quale il regista compone ogni singola immagine, inquadratura, luci, angolazioni, rimane ancora oggi unico e stupefacente. Un altro esempio di questa potenza e apertura dell’immagine verso lo spettatore è Kokuhakuteki joyu ron (Confessions Among Actresses) con cui nel 1971 porta sullo schermo tre attrici all’apice della loro carriera, Mariko Okada, Ruriko Asaoka e Ineko Arima, in un complesso gioco di specchi e di rimandi che offre un punto di vista sul mondo, quello dello sguardo femminile. Yoshida ha spesso scritto che uno dei pochi modi per osservare in maniera obiettiva la realtà giapponese, fortemente maschilista, è quello di stare dalla parte delle donne in quanto oppresse, discriminate e di fatto considerate fuori dalla società.
Il suo cinema si riflette e trova spesso un completamento negli scritti che nel corso degli anni ha pubblicato. Uno dei concetti che Yoshida ha più volte rimarcato anche in interviste e conferenze è quello per cui immagine e film costituiscono un concetto aperto che nega l’autorialità del cineasta diventando qualcos’altro, in quanto il «puro cinema» si forma fra ciò che viene proiettato sullo schermo e ciò che lo spettatore vede e scopre da sé. Anche per questo il cinema di Yoshida è spesso opaco, con piani temporali e spaziali che disorientano e che si intersecano senza soluzione di continuità. Come ha acutamente notato il critico Chris Fujiwara: «Un film di Yoshida non racconta una storia, ma descrive dei vuoti: gli spazi intensamente carichi attraverso i quali i suoi personaggi si guardano l’un l’altro che il regista organizza con crescente libertà e complessità».
DOPO l’ultimo film della trilogia, Coup d’Etat, Yoshida entra in un periodo di crisi artistica, smette di girare film di finzione, pensa addirittura di abbandonare il cinema, e si dedica, dal 1974 al 1977, ad una serie di documentari per la televisione, Bi no bi (The Beauty of Beauty), dedicati a grandi pittori del passato. Questa insicurezza si trasforma in una sorta di vagabondaggio quando nel 1977 si reca in Messico per girare un film, che però non vedrà mai la luce e porterà Yoshida a rimanere nel paese centroamericano per cinque anni, esperienze che verranno poi raccontate anche in un libro, Odissea messicana 1977-1982. Interessante è notare come questa crisi artistica sia in qualche modo parallela a quanto esperito da molti suoi colleghi, ricordiamo almeno Imamura che negli anni settanta si dedicherà a documentari televisivi girati vagabondando per il sud-est asiatico. È il sintomo della fine di un’epoca, quella in cui arte, politica e radicalismo formavano un movimento comune.
COME molti altri suoi coetanei, Yoshida ritorna al cinema negli anni ottanta, nel 1986 con Ningen no yakusoku (A Promise), due anni più tardi dirige l’adattamento di Cime Tempestose, Arashi ga oka, e fra il 1991 e il 1994 una serie di documentari sull’invenzione del cinematografo e sull’opera di Yasujiro Ozu. Film-saggi, questi lavori rappresentano un ulteriore riflessione, questa volta per immagini, sull’atto del vedere, filmare e più in generale sulla rappresentazione nel mondo contemporaneo. Ispirato da uno di questi lavori, Yoshida scrive nel 1998 un dei suoi libri-saggi più famosi, tradotto anche in italiano, L’anti-cinema di Ozu, tanto una riflessione sui film dell’autore di Viaggio a Tokyo, quanto un’esplorazione del rapporto complesso fra Ozu e Yoshida.
Quasi a chiudere il cerchio, ma al regista piacerebbe forse di più l’espressione «aprire il cerchio», Yoshida nel 2002 realizza il suo ultimo film, Kagami no onnatachi (Women in the Mirror) in cui le tre donne protagoniste, tra cui naturalmente figura anche Mariko Okada, sono accomunate dall’esperienza della bomba di Hiroshima.
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