Yes, un’avventura senza fine
Musica Con Rick Wakeman e Trevor Rabin, Jon Anderson ha riportato in vita la storica band, domani sera all'Auditorium Parco della Musica di Roma per il primo di tre concerti in Italia. «Ritengo che i musicisti e i gruppi nati in quell’epoca condividessero lo stesso desiderio: non avere né ostacoli né barriere di alcun tipo. Poi eravamo tutti amici »
Musica Con Rick Wakeman e Trevor Rabin, Jon Anderson ha riportato in vita la storica band, domani sera all'Auditorium Parco della Musica di Roma per il primo di tre concerti in Italia. «Ritengo che i musicisti e i gruppi nati in quell’epoca condividessero lo stesso desiderio: non avere né ostacoli né barriere di alcun tipo. Poi eravamo tutti amici »
Il prossimo anno ricorrerà il cinquantennale degli Yes e i tre concerti di questo minitour italiano, il primo è domani, 17 luglio, alla Cavea dell’Auditorium della Parco della Musica a Roma (il 19 Schio e il 22 saranno ad Arbatax), sembrano anticipare le celebrazioni di una delle band più amate del mondo, che negli anni settanta e non solo raccolsero molto anche in Italia. I numerosi cambi di formazione, la recente scomparsa di Chris Squire, l’evoluzione dello stile musicale, l’affrancamento e poi il riavvicinamento al progressive, sempre però soggetto alle più svariate ed imprevedibili contaminazioni, hanno fatto superare agli Yes anche i periodi più critici e appianato i contrasti interni dovuti alle fortissime personalità non solo musicali presenti nel gruppo. Chi si è preso la briga di tenere sempre insieme ogni cosa e aspetto della band è stato Jon Anderson, che, anche stavolta, con Rick Wakeman e Trevor Rabin e una sezione ritmica formata da Lee Pomeroy Louis Molino III., ha fatto «rinascere» il gruppo. Lo abbiamo raggiunto per parlare del ritorno e non si poteva con un ricordo del bassista e e primo fondatore degli Yes.
Come hai saputo e vissuto la scomparsa di Chris Squire?
Ero lì quando è morto, ho provato molto amore. È stato come averlo sognato e poi in un istante è morto. Avevamo gli stessi gusti musicali, eravamo come quasi come fratelli
L’Italia ha amato sempre dividersi su tutto. La politica, il calcio, il cinema e anche la musica. Nei ’70 chi era per i Deep Purple non era per i Led Zeppelin, e chi per gli El&P non parteggiava per gli Yes. In tal senso, hai mai percepito tali divisioni? Ora che Lake e Emerson sono morti, gli EL&P li vivevate come rivali oppure scambiavate con loro idee e progetti o almeno vi parlavate?
Ritengo che tutti avevamo lo stesso desiderio: essere musicisti che non avessero né ostacoli né barriere di alcun genere e che la musica diventasse una grande avventura. Eravamo amici, d’altronde avevano cominciato a suonare tutti più o meno nello stesso periodo.
Non solo i vecchi fans. Sono molti i giovani che aspettano di ascoltare dal vivo gli Yes; la vostra discografia è molto ampia e risente dei numerosi cambiamenti di formazione, nonché dell’evoluzione della vostra musica. Puoi indicare ad un giovane cosa dovrebbe ascoltare e perché?
Suggerirei loro di ascoltare sia Fragile sia 90125. Poco importa se a separarli ci sono dieci anni, sono due album molto avventurosi e conservano un’immagine per me magica
Puoi dire all’interno del prog quali erano le influenze colte e classiche degli Yes rispetto alle altre band?
La maggior parte delle band della fine degli anni ’60 ci piacevano molto e seguivamo così i Beatles, i Beach Boys e gli Who. Ma c’erano anche Frank Zappa e i Buffalo Springfield che andavano a braccetto con i grandi classici Stravinsky, Dvorak, Sibelius. Ascoltavamo anche i grandi del jazz come Miles Davis e Charlie Mingus. E anche i vecchi cantanti folk degli anni ’40.
È stata sempre potente anche la componente letteraria e visiva. Non eravate i soli: tutto il progressive raccoglieva testimonianze da mondi lontanissimi per il rock: fantascienza, spiritualità, mitologia
Nei ’70 quasi tutti gli album furono come dire molto immaginativi. Già c’erano stati Tommy e Sgt. Pepper, queste furono una delle ragioni che ci portò a considerare le copertine dei dischi preziose. Tutte si aprivano. Le nostre copertine le illustrava Roger Dean e un album diventava un viaggio musicale condotto su più livelli. Era passato il tempo di considerare un album come solo un contenitore di musica, di una o due canzoni pop.
Uno degli elementi che hanno contraddistinto gli Yes è stata la tua voce. Oggi come la mantieni in forma?
Sto molto bene in salute ed in questo sono molto fortunato. E mi diverto ancora a cantare. E soprattutto non fumo.
Hai collaborato con tanti musicisti tra cui Vangelis. Come giudichi la versione di Donna Summer e Quincy Jones di «State of Indipendence»?
Un momento molto eccitante vedere tutti questi grandi cantanti che cantavano quella canzone (un supercoro che affiancava la cantante di Boston, formato fra gli altri da Michael Jackson, Stevie Wonder, Dionnne Warwick, ndr) ha fatto sentire sempre bene ed è sorprendente ciò che loro fanno.
Sul palco come te la caverai con Rabin e chi deciderà la scaletta dei concerti?
Trevor è un bravo ragazzo oltre ad essere un incredibile chitarrista. Inoltre sa far divertire molto. Somiglia all’attore comico John Cleese. Trevor e Rick quando parlano mettono il buonumore che per me è fondamentale e meraviglioso avere nel momento in cui si sta sul palco a suonare. Così noi ci prepariamo a celebrare la musica degli Yes ad ogni concerto.
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