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Yemen, la reazione Houthi: «Kamikaze contro l’Arabia Saudita»

Yemen, la reazione Houthi: «Kamikaze contro l’Arabia Saudita»Ribelli Houthi in Yemen – Reuters

Yemen Sale a 61 il bilancio delle vittime dei raid sauditi. L'ex presidente Saleh chiede la mediazione dell'Onu, che però si defila, lasciando mano libera all'asse sunnita

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 29 marzo 2015

Mentre in Yemen sale il numero di civili uccisi dai raid sauditi e Sana’a paga il prezzo della guerra per procura contro l’Iran, a Sharm el-Sheikh i leader dell’asse sunnita discutevano della migliore strategia militare per piegare gli Houthi yemeniti e, preda ben più ambita, per ridurre in briciole l’influenza iraniana sul piccolo paese del Golfo.

Secondo il Ministero della Salute yemenita il bilancio delle vittime è arrivato a 61, dopo il terzo giorno di bombardamenti che hanno colpito la capitale Sana’a e il sud del paese, in parte occupato dai ribelli sciiti. I jet hanno centrato un arsenale di missili in mano Houthi a Sana’a e colpito un convoglio di miliziani che si stavano muovendo verso Aden con veicoli blindati e carri armati. Il Comitato Esecutivo Houthi ha reagito minacciando di «inviare attentatori suicidi in Arabia Saudita nelle prossime ore».

Re Salman al-Saud ieri ha promesso che la campagna militare proseguirà fino a quando gli obiettivi non saranno archiviati, mentre il presidente yemenita fuggiasco Hadi rilanciava le sue accuse contro l’Iran e dava i numeri: «Ci sono 5mila truppe iraniane, sciite irachene e di Hezbollah in Yemen».

Ieri si sono registrati i primi scontri via terra tra fazioni rivali, con in campo al fianco degli sciiti anche i fedelissimi dell’ex presidente Saleh. L’ex dittatore, rovesciato dalle proteste popolari e abbandonato dall’alleato saudita, ha fatto appello ieri per un immediato cessate il fuoco e chiesto all’Onu di mediare tra le parti. Ma le Nazioni Unite, al momento, appaiono più interessate a restare nell’angolo e a lasciare le questioni interne al Medio Oriente in mano ai leader arabi.

Seppur il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ieri sia volato al summit della Lega Araba in Egitto e l’Onu abbia richiesto alla famiglia Saud di mettere a disposizione propri aerei per evacuare lo staff a Sana’a, il mantra per ora rimane quello del «se la vedano da soli». Come se il conflitto in corso in Yemen non fosse un fatto internazionale: dietro alla coalizione di 10 paesi della crociata anti-Teheran, ci sono gli Stati Uniti e l’Europa, che hanno gli occhi puntati sul reale bottino: lo stretto di Bab al-Mandeb, da cui transitano ogni giorno quasi 4 milioni di greggio diretti ai paesi europei e, con il petrolio, la rete di alleanze economiche e politiche che garantiscono al Golfo l’immunità necessaria a certi interventi.

L’altro bottino è l’Iran. E qui entrano in gioco gli Stati Uniti che, seppur vicini a firmare l’accordo sul programma nucleare con Teheran il 31 marzo, in Yemen si sono schierati con le petromonarchie del Golfo, nel timore di un eccessivo rafforzamento iraniano. Dopo aver fornito servizi di intelligence e voli di sorveglianza alla coalizione anti-Houthi, l’aviazione Usa ieri ha salvato due piloti sauditi costretti a lanciarsi fuori dai loro F15, sopra il golfo di Aden, per problemi tecnici.

Ieri la portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale Usa, Bernadette Meehan, ha ripetuto che l’amministrazione Obama concorda con re Salman sull’obiettivo comune, «garantire stabilità duratura allo Yemen attraverso una soluzione politica negoziata mediata dall’Onu». Ma gli appelli al negoziato lanciati dai ribelli Houthi per mesi (prima di lanciare l’offensiva su Sana’a a settembre, proseguita a marzo fino alla fuga del presidente Hadi dalla capitale provvisoria Aden) sono stati sistematicamente ignorati dal potere centrale, poco intenzionato a dividere la propria autorità e la gestione economica del paese con la minoranza sciita.

Di nuovo sul banco degli imputati finisce la strategia Usa in Medio Oriente. Un decennio dopo l’invasione dell’Iraq, il Medio Oriente è una bomba prossima all’esplosione, spiega su Washington Examiner Derek Harvey, direttore della Global Initiative for Civil Society and Conflict, con tassi di violenza istituzionale e non sempre più elevati. Una violenza dovuta agli alleati statunitensi (Egitto, Turchia, Israele e Arabia Saudita) e a gruppi estremisti islamisti cresciuti grazie ai finanziamenti dei regimi arabi e diventati incontrollabili, cresciuti nel fertile terreno dei settarismi interni esplosi con le divisioni di potere imposte dall’esterno.

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