Yeast festival, dal pianeta al piatto
Fotografia Mostre di artisti internazionali dedicate al cibo, con contaminazioni sonore. Intervista a Nynke Brandsma, che al festival presenta il suo lavoro
Fotografia Mostre di artisti internazionali dedicate al cibo, con contaminazioni sonore. Intervista a Nynke Brandsma, che al festival presenta il suo lavoro
Mani che impastano, raccolgono, tagliano, offrono: quante mani in cucina per parlare di condivisione, tradizione, nutrimento, amore, cultura, convivialità. Ci sono mani, però, che mostrano anche le criticità della società contemporanea, puntando l’indice sull’alimentazione quotidiana, sulla provenienza del cibo e sulla sostenibilità climatica e sociale, tema della III edizione di Yeast Photo Festival From Planet to Platet (fino al 3 novembre).
Organizzato da Besafe e Onthemove nel centro storico del borgo di Matino, con Edda Fahrenhorst alla direzione artistica e i co-direttori Flavio & Frank con Veronica Nicolardi, questo festival fotografico diffuso dedicato al cibo, tra reportage e contaminazioni sonore, con le sue 15 mostre di autrici e autori internazionali, tra cui Jean-Marc Caimi & Valentina Piccinni, Nynke Brandsma, Carolina Arantes, Henrike Stahl, Kadir van Lohuizen, Axel Javier Sulzbacher, Florian W. Müller, Alexander Yegorov con Welcome to Yesterday (vincitore del Premio Irinox Save the Food in collaborazione con Mia Photo Fair e Irinox) e le foto vernacolari della collezione di Jean-Marie Donat, si propaga anche quest’anno nel chiostro di palazzo del Seminario a Lecce con Waha di Seif Kousmate, espandendosi a Palazzo Scarciglia con Merci Pour Ton Agréable Visite, Les Jolies Fleurs Et Les Délicieuses Fraises di Sarah Boutin, nella chiesa di S. Maria La Nova a Racale con The Forest Knows di Nicoló Lanfranchi e nel castello baronale di Castrignano de’ Greci (sede di Kora Centro del Contemporaneo) con Kukbuk di Katerina Sýsová in collaborazione con il Centro Ceco di Roma. «Siete consapevoli che una salsiccia implica l’uccisione di un animale? Sapete che i pesticidi agricoli sono spesso utilizzati per garantire una crescita stabile di cereali e ortaggi? E che in alcune parti del mondo c’è chi lotta per l’acqua necessaria a far crescere un avocado?» si chiede Edda Fahrenhorst rivolgendo il quesito all’audience.
Il riscontro è in tutti i progetti di Yeast Photo Festival 2024, in particolare in quelle mani prive delle unghie, avvelenate dai glifosati che infestano i campi argentini, oggetto in The Human Cost di 7 anni di lavoro di denuncia del fotografo argentino Pablo Ernesto Piovano. Tinte con l’henné e con le palme rivolte verso l’alto, come in preghiera o raccolte intorno alla giara per l’acqua avvolta nel tessuto ricucito, quelle che Kousmate ha fotografato in un’oasi nel sud del Marocco, la sua terra, con un linguaggio tra documentario e concettuale. Anche la canadese Boutin trova proprio nelle mani il filo conduttore di una storia intima sul nutrimento dell’anima nel convento delle Suore della Carità del Québec: in una sorta di affinità elettiva, sopra l’altare di S. Maria La Nova a Racale è esposta la foto di Lanfranchi di un paio di mani, testimoni del rapporto fortissimo con la terra nel villaggio indigeno di Apiwtxa in Brasile, tra celebrazione del cibo e restituzione del dono. Dai lamponi canadesi, quindi, al biribò del popolo Asháninka che ha raggiunto la sicurezza alimentare e l’autonomia salvaguardando la propria tradizione culturale. La gestualità dell’offerta torna, infine, nel progetto Don’t Play with Food, commissionato dal festival ad Alessia Rollo. «Non giocare con il cibo» è il racconto degli incontri tra la fotografa salentina e persone conosciute o sconosciute, magari sorseggiando un caffè. Momenti di condivisione del quotidiano in contesti diversi di cui le immagini delle mani conservano l’essenza di quei piccoli doni ricevuti da Rollo a conclusione dell’incontro: del pane, un dolce, una «ventarola» devozionale con l’immagine di San Rocco, pellegrino e taumaturgo.
Intervista a Nynke Brandsma
«In olandese mijn duifje significa il mio piccione/la mia colomba ma ha un doppio senso: vuol dire il mio uccello o il mio amore», spiega Nynke Brandsma (1986, Hoorn, Olanda, vive e lavora ad Amsterdam) parlando del progetto Mijn Duifje. A pact between a man and a bakery (2021-2022) che espone a Yeast Photo Festival 2024 – From Planet to Plate (fino al 3 novembre) nella suggestiva Macelleria Ex Nau di Matino con le sue tracce visibili del tempo. Tra fotografia documentaria e concettuale è una storia inquietante, ma coinvolgente, che «pone domande sulla nutrizione, sulle catene circolari, sulle possibilità e impossibilità e sul nostro comportamento e pensiero».
Come nasce Mijn Duifje, il progetto che hai dedicato all’amore/ossessione di un uomo per i piccioni?
L’uomo di cui parlo cattura i piccioni fuori da un panificio, ad Amsterdam, e li mette vivi all’interno di calzini. Lì dentro è buio perciò gli uccelli sono più tranquilli, non avendo spazio non possono muoversi. Mette i calzini nello zaino e camminando torna a casa, dove comincia la sua ricerca. È un ricercatore perciò li pesa, li misura e con tanto amore, devozione e conoscenza li uccide. Apre il corpo dei piccioni per cercare altre informazioni che si appunta con una bellissima grafia. Si pone domande su quale sia, ad esempio, la differenza tra la lunghezza della zampa e quella delle ossa, oppure se esiste una correlazione tra peso, lunghezza delle ali, della coda, della testa, del becco e delle zampe mentre il volatile cammina o se il rapporto tra peso corporeo e peso dei muscoli corporali sia costante. Una volta annotate tutte queste informazioni si è chiesto cosa dovesse fare con quel corpo di volatile. Buttarlo via o conservare la sua massa muscolare pettorale? Ogni piccione ha due muscoli del petto che pesano ognuno 35 grammi, ovvero 70 grammi in tutto. Con tre petti di piccione da 210 grammi può mangiarci per due giorni. Negli ultimi sei mesi dello scorso anno egli ha mangiato oltre duecento piccioni che è più di uno al giorno. Ma ci sono stati giorni in cui ne ha catturati anche 16 e non potendoli mangiare subito li ha messi nel congelatore. Li cucina di volta in volta con la cipolla e li mangia. Per me questa storia ha diversi livelli di lettura. È una storia metropolitana nascosta che mi ha incuriosito portandomi a chiedere cosa ci sia dietro le porte chiuse. Parla anche di giudizio. Qual è la reazione della gente di fronte ad una storia del genere? Parlando di cibo, è salutare mangiare piccioni di strada? I piccioni che ci sono ad Amsterdam non sono certo quelli delle campagne francesi. Li chiamiamo ratti volanti: mangiano cose come patatine fritte, chewing gum e sigarette, ma quelli catturati da quell’uomo, proprio perché erano fuori dalla panetteria, avevano nei loro corpi soprattutto sementi.
Come sei venuta a conoscenza della storia di quest’uomo?
Ne avevo sentito parlare in un bar. Una volta l’ho incontrato e ci siamo messi a parlare, bevendoci una birra. Gli dissi che mi stavo occupando di lumache e lui mi disse dei piccioni. Ero molto incuriosita dai suoi racconti dei piccioni dalla panetteria al piatto, così gli chiesi se potevo vedere quello che faceva e magari fotografare. Mi disse che ci avrebbe pensato. Il giorno dopo ho ricevuto una sua telefonata e una mail in cui mi diceva che potevo andare a trovarlo, purché rimanesse nell’anonimato. Nella serie, infatti, c’è solo una foto in cui è visto da dietro, non è riconoscibile. Ognuno avrà la propria immaginazione su di lui, ma non è un folle come si potrebbe pensare.
Quell’uomo cucina i piccioni ma poi li mangia da solo?
Sì, ma seguendo l’intero processo sono tornata più volte da lui per fotografare e anch’io, naturalmente, ho dovuto mangiarli. Abbiamo cenato insieme mangiando verdure, patate con petti di piccioni cotti con la cipolla, sale e pepe e un bicchiere di vino. Erano molto buoni, malgrado tutto.
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