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Yayoi Kusama, la via per l’oltre costellata di pois

Yayoi Kusama, la via per l’oltre costellata di poisYayoi Kusama, «The Moment of Regeneration», 2004

Al Guggenheim di Bilbao Infinito, accumulazione, biocosmo, ombre radianti di morte e vita... La grande retrospettiva di Yayoi Kusama, 94 anni, semina interrogativi: un alfabeto magico

Pubblicato circa un anno faEdizione del 9 luglio 2023

Nel 1966, il prato antistante il padiglione italiano della Biennale di Venezia fu invaso da un tappeto cinetico di millecinquecento sfere color argento che rifletteva immagini ovunque. Rimbalzavano sul verde dell’erba e, ipnoticamente, invitavano a una pausa dalla corsa contro il tempo: era il Narcissus Garden di Yayoi Kusama.

L’artista giapponese non figurava nella lista degli invitati ufficiali, ma poteva contare sull’appoggio (anche finanziario) di Lucio Fontana e su quello degli organizzatori dell’esposizione che, per l’occasione, chiusero un occhio. Almeno fino a quando la trovarono in piedi a vendere ai visitatori le sue palle-sculture per due dollari ciascuna. In netto anticipo sui «social» e su Guy Debord (il suo libro La società dello spettacolo uscirà nel ’67), Kusama denunciava con la sua irridente performance «Narcisismo in vendita» la commercializzazione di sé e della propria immagine. L’azione venne fermata, ma quel parco illusorio rimase in Biennale, a testimoniare una mistica comunanza di natura ed esseri umani.

Oltre cinquant’anni dopo, una felice coincidenza espositiva ha fatto incontrare di nuovo l’opera dell’artista con il suo mentore Fontana. Nella retrospettiva inauguratasi al museo Guggenheim di Bilbao Yayoi Kusama: dal 1945 a oggi (a cura di Doryun Chong e Mika Yoshitake in collaborazione con Lucía Agirre, visitabile fino all’8 ottobre), le loro due installazioni si specchiano una nell’altra, propagandosi anche all’esterno per via della luce che emettono, elemento principe della filosofia di entrambi, insieme alla instancabile fuoriuscita dai confini professata come unico metodo creativo.

Autoritratto, 2015

Alla sua seconda tappa dopo Hong Kong, la monografica sceglie un itinerario non cronologico, ma che procede per stazioni tematiche divise in sei tappe – si va dall’infinito, concetto che accompagnerà l’artista in ogni passaggio esistenziale, all’accumulazione fino al biocosmo e alle ombre radianti di morte e vita. Il racconto si dipana fra biografia intima e un’affermazione professionale che rappresenta una eccezione nel mondo dell’arte, intrecciandone i motivi in più di duecento opere, con una ricca sezione dedicata ai video più radicali del periodo americano, quando Kusama protestava contro la guerra in Vietnam nuda e ricoperta di pallini dipinti, oppure officiava matrimoni gay battendosi per i diritti civili, fra un arresto e l’altro.

Cresciuta immersa in un vivaio di sementi della sua famiglia, dove c’erano spaventevoli fiori a perdita d’occhio («erano tanti, mi sentivo sopraffatta, li volevo mangiare tutti»), gli stessi che oggi vediamo allungare i loro tentacoli nelle sale dei musei, Kusama fin da bambina – in quella sua sventurata infanzia con madre abusante, padre infedele seriale, popolata di ricorrenti allucinazioni e attacchi di panico – cuce addosso a sé la cartografia di un universo senza limiti fisici, etereo come i pois che vede apparire nel mondo di sopra (la circonferenza di luna e sole) o che designano il nostro pianeta sulle mappe celesti. Il suo obiettivo è perdersi, far evaporare il corpo nel cosmo immaginario.
Diversamente da molti altri colleghi artisti, Yayoi Kusama partirà proprio dai suoi traumi, originando le opere dai vuoti vertiginosi della psiche, coltivando la consapevolezza del suo disagio. «Combatto il dolore, l’ansia e la paura ogni giorno e l’unico metodo che ho scovato per alleviare la mia malattia è continuare a creare arte».

Aveva cominciato a disegnare in tenerissima età, compulsivamente, ossessivamente, resistendo all’opposizione di una madre (eppure sarà proprio lei uno dei primi soggetti, in un ritratto già costellato di psichedelici pallini) che le nascondeva gli inchiostri e le strappava i fogli dalle mani, invitandola a frequentare una scuola di buone maniere. Nata nella prefettura di Nagano a Matsumoto nel 1929, ultima di quattro figli in una famiglia della media borghesia, dovrà resistere strenuamente anche alla cultura tradizionale del suo paese, sordo a qualsiasi segno di emancipazione femminile.

Portrait of Yayoi Kusama, courtesy of Ota Fine Arts, Victoria Miro and David Zwirner © Yayoi Kusama, Photo: Yusuke Miyazaki

La svolta arriverà nel 1958 quando, abbandonate le esercitazioni sulla pittura nihonga, seguendo il consiglio del suo psichiatra lasciò il Giappone per New York. In tasca, ha soltanto una manciata di soldi presi in prestito e una lettera di Georgia O’Keeffe a cui aveva scritto senza nulla sperare e che invece le aveva risposto, sostenendola. Kusama parte con una valigia piena zeppa di disegni, intenzionata a venderli fuori dai giri delle gallerie.

Ma l’America degli anni cinquanta non è un posto facile per una donna asiatica come lei, sradicata e priva di entourage sociale. Oltretutto il suo paese è stato un indigesto avversario in guerra, piegato con l’uso della devastante bomba atomica. Eppure Kusama riesce a inserirsi: come numerosi altri giovani artisti, reagisce all’Espressionismo astratto, procede verso il Minimalismo con i suoi caratteristici pattern a pallini che costituiscono la rete visiva di un personalissimo infinito, rappresenta ambienti domestici stranianti, arredi e corpi-manichini pop, senza però aderire all’ideologia ottimistica di quel movimento. È – e resterà sempre – una outsider. Pittrice, scultrice, fashion designer, a tratti letterata, non ci sono etichette per la sua voracità visionaria. Pure il cinema l’ha sfiorata: è del 1992 il suo cameo nel film Tokyo Decadence, adattamento dal libro di Ryu Murakami (qui in veste anche di regista e sceneggiatore).

Yayoi Kusama, Self-Obliteration, 1966–74

Nella caleidoscopica scena d’avanguardia dell’epoca, per affinità elettive sceglie Joseph Cornell, di 26 anni più grande: è un coscienzioso «disadattato» alle regole sociali, vive con sua madre e, in totale solitudine, porta avanti la sua ricerca costruendo piccole scatole-mondo pullulanti di objets trouvés. Li lega una passione platonica, nella perenne e condivisa ricerca di un «altrove possibile» – lei con l’estasi e la ripetizione di quei pois, cifra ultima con cui misurare il «non visibile» («la nostra terra non è che un puntino in mezzo a milioni di stelle nel cosmo, i pois sono una via verso l’infinito; quando cancelliamo la natura e il nostro corpo con i pois, ci uniamo all’universo»), lui racchiudendo in condensate teche tutti gli aspetti misteriosi della realtà, declinandoli in chiave poetica e onirica.

The Pumpkins

Alla morte di Cornell, in uno stato di profonda prostrazione, Yayoi Kusama lascerà New York per compiere un viaggio à rebours, in Giappone, fino a chiudersi nel 1977 – volontariamente – in un istituto psichiatrico, uscendo dalla sua stanza solo per recarsi al suo studio, dall’altra parte della strada. A 94 anni è ancora lì, in pienissima attività, disegnando senza sosta opere che documentano «la forza della vita», come recita il titolo dell’ultimo capitolo della mostra al Guggenheim.
È un insieme di quasi novecento dipinti dai colori sgargianti e dalle forme primigenie, che rimandano alle raffigurazioni magiche e rituali dei popoli nativi. Una sorta di alfabeto che sintetizza specie animali e vegetali, il mare, la terra, i venti, i minerali. L’artista è sempre più convinta che la pittura possa guarire l’umanità intera, innescando processi di pace.

Nel frattempo, nei difficili anni giapponesi del ritorno, Kusama è diventata una imprenditrice di sé stessa, ha fondato un suo museo, ha collaborato con Vuitton, ma il piccolo quadro con l’oceano scosso da onde concentriche e pennellate pastose, dipinto nel 1958 (esposto nella rassegna basca), rimane un atto fondante, il «segno» da cui germogliò Infinity Net e quell’universo che si rigenera, ogni volta, in stanze labirintiche e superfici specchianti.

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