Visioni

Yannick Bellon, la cineasta che sapeva cogliere il femminile

Yannick Bellon, la cineasta che sapeva cogliere il femminileA destra, Yannick Bellon

Cinema Scomparsa a Parigi a 95 anni, aveva vinto nel 1948 il Leone d’oro a Venezia con «Goémons». Da «L’amour violé» a «La femme de Jean»nei suoi film metteva al centro le donne

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 5 giugno 2019

Nel 1948 con Goémons, il suo film d’esordio, Yannick Bellon aveva vinto il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia per il miglior documentario, a quel racconto di vite al lavoro, aspre, in lotta col raccolto delle alghe nere sull’isola bretone di Béniguet, la regista allora ventiquattrenne aveva dedicato tre anni filmando tra il 1945 e il 1947 la coppia protagonista e il loro figlioletto. Nelle sue immagini coglieva i gesti quotidiani, la fatica, i pasti in comune, la miseria, la tristezza di quelle esistenze che strideva con la bellezza del paesaggio. E il documentario è la forma che caratterizza la prima parte della sua carriera, da Varsovie quand même (1955), sulla rinascita della città distrutta dopo la guerra a Colette (1952), ritratto della scrittrice francese – «Colette accolse l’idea del film senza difficoltà; nel corso dell’intera lavorazione dimostrò uno spirito di collaborazione esemplare … Accettò anche di leggere il testo lei stessa, interpretando il ruolo da vera attrice» diceva Bellon del film.

NEGLI ANNI Sessanta continua a confrontarsi con la letteratura ideando la serie televisiva Bibliothèque de poche, e fonda la propria casa di produzione, les Films de l’équinoxe con cui realizza il suo primo lungometraggio, Quelque part quelqu’un (1972), interpretato da Roland Dubillard e dalla sorella della regista, Loleh Bellon, l’incontro di destini e personaggi diversi sullo sfondo di una Parigi in mutazione. Il film sarà un insuccesso all’opposto del seguente La Femme de Jean (1974), ritratto di una donna che ritrova sé stessa dopo la fine del matrimonio tornando a essere Nadine – questo il nome della protagonista – invece che «La moglie di Jean». In una critica dell’epoca («Le Monde») si legge: «Il film è realizzato da una donna con una donna protagonista, e illumina la condizione femminile nel matrimonio senza essere né didattico né di parte. La lezione di Bellon è essenzialmente morale e vale per gli uomini e per le donne».

Da allora le figure femminili occuperanno con decisione i suoi fotogrammi anche se è solo col film successivo che Bellon viene riconosciuta come una delle pioniere del cinema femminista in Francia: L’Amour violé (1978) nel quale affronta la violenza sessuale a partire dal «dopo», da quello che accade nella vita della vittima, una giovane infermiera dopo uno stupro di gruppo – nel cast Nathalie Nell, Daniel Auteuil, Pierre Arditi. «Ho messo al centro dei miei film alcuni aspetti legati alla realtà delle donne e alla loro condizione perché me ne sento parte» diceva Bellon, anche montatrice oltre che produttrice, scomparsa domenica scorsa a Parigi a 95 anni – era nata a Biarritz il 6 aprile del 1924 in un famiglia di artisti, l’archivio della madre Denise Bellon, fotografa surrealista era all’origine del film che Bellon aveva realizzato insieme a Chris Marker, Le souvenir d’un avenir (2001).

DA QUI, dalle donne, il suo sguardo riusciva a cogliere gli aspetti più complessi della società e del suo tempo, reinventando la militanza nei sentimenti, come avviene in film quali Jamais plus toujours (1976) in cui gli oggetti narrano l’intimità delle esistenze e il passare degli anni, o in figure come quella del commissario bisessuale – interpretato Victor Lanoux in La Triche (1984), e ancora nell’ecologista che lotta per creare una riserva ecologica riservata agli uccelli in L’Affût (1992). «Fare film significa per me esprimere delle emozioni, essere nel cuore della vita, che è molteplice. Mi sembra importante per questo sia raccontare una rivolta o la conquista di una nuova consapevolezza che esprimere la dualità degli individui e dei sentimenti amorosi. Io voglio essere aperta a tutto». La grande scommessa del suo essere cineasta.

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