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Yan Pei-Ming, storia e storie in una cucina infernale

Firenze Pittura furente, scarmigliata, in debito con l’Espressionismo astratto: un grido monocromatico. Dai grandi eventi agli affetti privati, il pittore di Shangai «dipinge come se facesse la guerra»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 3 agosto 2023

Che a Yan Pei-Ming interessi l’uomo è cosa nota, e basta dare una scorsa alle teste e figure, ritratti non ritratti, con cui si è cimentato sin quasi dall’inizio della sua ricerca, addomesticando quella sua pittura furente e scarmigliata nell’apparizione del volto dolente e inafferrabile dell’umanità stessa, oltre i pretesti ritrattistici di volta in volta costituiti dal padre, dalla figura di Mao, dai cento e otto briganti del Shuihu Zhuàn, o da chissà quale altro feticcio.
Tale attenzione all’uomo, naturalmente, conduce il pittore a indagarne le azioni, ovvero la storia, ed è questa direzione di ricerca a informare la mostra a cura di Arturo Galansino Yan Pei-Ming. Pittore di storie, in corso sino al 3 settembre prossimo a Palazzo Strozzi, Firenze, dove è possibile ammirare un nutrito gruppo di opere monumentali eseguite dall’artista cinese negli anni recenti.
Gli ingredienti sono quelli che abbiamo imparato a conoscere e amare negli anni seguendo la ricerca di Yan. C’è la sua pittura rabbiosa e impellente, stesa con spatole e pennellesse quasi mutuando quell’armamentario formale proprio dei grandi artisti della stagione espressionista astratta e informale, da De Kooning a Soulages, ed è risaputo, d’altronde, che il pittore veda l’atto del dipingere come un assalto – «Quando mi domandano come dipingo, io rispondo “Come se facessi la guerra”», dichiarò anni fa in un’intervista.
E non manca quella dominante assenza del colore che rimane profondo amore per il monocromo e il tonalismo anche in quelle rare prove virate generalmente al rosso, o in altri cromie, forse perché il colore non si addice al tragico e confonde quella dialettica tra opposti così familiare al pensiero orientale.
Nonostante viva in Francia dal 1980, l’artista non ha mai dimenticato né rinnegato le radici culturali cinesi, la cui impronta riaffiora sia nei soggetti scelti, sia nelle dinamiche operative: se da un lato, infatti, motivi come la tigre o il drago, Buddha, Mao o Bruce Lee, ossessivamente riproposti e declinati da Yan, appartengono alla tradizione storica o recente della Cina, dall’altro traspare dai suoi paesaggi memoria dell’ antica pittura paesaggista cinese a inchiostro. Forte è inoltre la tentazione di indovinare parallelismi tra la spontaneità espressiva delle sue pennellate subitanee e quella del gesto di un calligrafo orientale, in entrambi i casi in applicazione a uno stesso motivo, ripetuto ma con esiti sempre differenti. Claude Hudelot, una ventina di anni fa, proprio scrivendo dei Mao di Yan citava un’intuizione del sinologo Jean François Billeter, per il quale «Le calligraphe interprète son texte comme l’instrumentiste sa partition».
Quando la pittura non prende la forma di ritratti di persone comuni o familiari dell’artista, infine, è presente un’altra cifra peculiare dell’artista cinese, la presa come modelli di personaggi e figure attinti da un immaginario collettivo che potremmo dire pop, lo stesso cui attingeva Warhol. Warhol però non riprese mai Bruce Lee, ad esempio, secondo Yan un soggetto troppo poco borghese per il papà della pop art.
Ma torniamo all’uomo, di cui le opere di Yan elevano su scala monumentale la dimensione esistenzialmente tragica, partendo dall’individuo – la mostra inizia non a caso con un ciclopico autoritratto triplo, quasi una crocifissione laica, in dialogo con un autoritratto concettuale, il mucchio informe di residui di pittura accumulati in anni di lavoro nel suo studio – per arrivare a una cupa e sconsolata riflessione sulla storia e sulla natura umana in generale. Il senso di fascinazione non sempre chiaramente afferrabile emanato dalla ricerca, anche recente, del pittore cinese, origina pure dalla promiscuità misteriosa con cui si combinano quasi senza soluzione di continuità riferimenti alla propria storia privata e a una storia, anche dell’arte, più universale e condivisa, scandita da eventi e personalità che sono diventati icone del potere.
I genitori dell’artista rivestono dunque un ruolo di primo piano nella parte iniziale della mostra. Una sala, quasi una sorta di intimo, delicato santuario, è dedicata alla madre scomparsa radunando un enorme ritratto di lei in colloquio con un Buddha e con un paradiso celeste, paesaggio immaginato da Yan come dimora ultraterrena della genitrice. In un’altra sala si trovano invece vis-à-vis il ritratto del padre in letto di morte e la scena della propria morte fantasticata dall’artista, innestati nell’enigmatico e ambizioso polittico Les Funérailles de Monna Lisa – opera che lo stesso Musée du Louvre commissionò all’artista nel 2009 –, solenne messa in scena del seppellimento di un dipinto che è diventato, per usare le parole dello stesso Yan, «un mistero, come la morte stessa».
Il dibattito artistico si è posto per secoli il problema del rapporto tra pittura di storia e invenzione, perché i fatti storici si tramandavano solo per narrazione, e Yan affronta la questione ricorrendo all’immaginario iconografico di massa per legittimare i soggetti ritratti. In alcuni casi il confronto con il personaggio o con il fatto storico è anche occasione di implicito confronto con la storia dell’arte, ossia con il maestro che ha dipinto quel soggetto precedentemente al pittore di Shanghai, come per il Marat ucciso di David, o per l’Innocenzo X visto da Velázquez, e poi da Bacon, o per la fucilazione di Goya, in cui Yan ha eliso i morti per accentuare la violenza dell’atto.
In altri casi, la testimonianza dei fatti ritratti è trovata dal pittore nelle immagini fotografiche di rotocalchi ormai riconoscibili universalmente, come quelle del ritrovamento di Moro, o del crimine Pasolini, il corpo del poeta disteso a terra quasi un Cristo in scurto, e non a caso l’analogia cristica viene ribadita da Yan reinterpretando uno still della crocifissione del Vangelo secondo Matteo. Proprio in un’intervista di qualche anno fa, in occasione della mostra tenutasi a Villa Medici, il pittore cinese confessava che «oggigiorno sono le immagini a sostenere i fatti. Se faccio un Aldo Moro immaginario non funzionerà mai, poiché si ha la prova mediante l’immagine».
Un cane rabbioso, l’episodio di Piazzale Loreto e il ritratto del ritratto di Hitler eseguito da Hubert Lanzinger, la cui tela venne bucata dai soldati americani in corrispondenza dell’occhio, ci confermano che la Storia letta da Yan sembra essere infine una dimensione umana cupa e senza speranza, come il paesaggio infernale immaginato nel colossale dittico À l’Est de l’Eden, battuto da fere irrazionali imprigionate in un perpetuo meccanismo di reciproca sopraffazione belluina. E nulla si riesce nemmeno a imparare, sembra ammonire Yan, vista la montagna di teschi rossi che separa, in due piccoli e suggestivi ambienti della mostra, tre ritratti di Putin eseguiti da Yan nel 2008 prendendo a modello la copertina di «Time», dove il presidente russo era apparso come Person of the Year, e tre di Zelensky, apparso sulla copertina dello stesso settimanale nel dicembre 2022.
Per usare impropriamente una metafora di Pirandello nel Fu Mattia Pascal, anche alla base della visione storica di Yan Pei-Ming sembra esserci uno strappo nel cielo di carta del teatrino di marionette che, rivelando ai protagonisti della tragedia la vacuità dei ruoli drammatici da essi interpretati, ha elevato il tragico a esistenziale.
E nessun mezzo migliore per dargli forma che la sua pittura feroce, sofferente, spietata, perché, si sa, la pittura non è un pranzo di gala.

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