Tutto cominciò dalla copertina di un disco. Nel 1960 Charles Rosen aveva registrato varie musiche di Chopin, ma era rimasto infastidito dalle note di accompagnamento che avrebbero dovuto comparire sulla busta. Lo stile della critica musicale di allora infatti era dominato da un’estetica di stampo idealistico, in cui abbondavano le allegorie poetiche e le espressioni insulse come «l’inebriante e sconvolgente profumo dei fiori», usata dall’incauto estensore delle note per descrivere il Notturno in si bemolle maggiore op. 62 n.1, uno degli ultimi scritti da Chopin, alla vigilia della penosa rottura con George Sand.

Rosen gettò alle ortiche la copertina e decise che d’ora in poi avrebbe scritto lui stesso le note dei suoi dischi. Il successo fu immediato, tanto che ben presto venne invitato a collaborare con la «New York Review of Books». Fino al momento della sua morte, nel 2012, Rosen è stato uno dei principali collaboratori della rivista, sulla quale ha scritto di svariati argomenti, dalla musica alla cucina, alla letteratura francese, con la caustica intelligenza e la sterminata cultura che lo hanno sempre contraddistinto.

Il pianista americano non rappresenta certo l’unico esempio di musicista dotato anche di una spiccata attitudine alla critica – basterebbe pensare a Berlioz, Schumann, Debussy, Boulez o Berio – ma la sua impostazione mette in evidenza un nuovo orientamento alla divulgazione musicale. Rosen fonda la sua ermeneutica su un’analisi del testo condotta alla luce degli elementi principali del linguaggio musicale, ma soprattutto dell’esperienza dell’ascolto. I suoi libri, infatti, si distinguono per un marcato carattere sonoro, che accompagna idealmente la lettura della pagina muta. Il bisogno di sentire la musica di cui parla, Rosen lo sostituisce con un florilegio di esempi musicali, sparsi lungo il testo con numerosi ricami di pentagrammi, purtroppo incomprensibili alla maggior parte dei lettori. Consapevole del limite strutturale del suo lavoro, Rosen ha voluto che il suo ampio saggio dedicato al Romanticismo, pubblicato in Italia da Adelphi nel 1997 con il titolo La generazione romantica, fosse corredato da un Cd contenente esempi musicali, da lui stesso eseguiti al pianoforte.

In effetti la conferenza è la forma di comunicazione ideale per Rosen, che aveva il dono, seduto alla tastiera, di catturare l’attenzione degli spettatori grazie all’amalgama unica di maestria musicale, acuto senso critico e vasta erudizione umanistica. Certo, per apprezzare fino in fondo il taglio di Rosen, occorre condividere la sua ferrea convinzione che la musica sia essenzialmente un linguaggio. Il suo primo e insuperato libro, Lo stile classico. Haydn, Mozart, Beethoven, si regge infatti su questo assioma, presentato in maniera perentoria nella frase d’apertura della prefazione alla prima edizione del 1971: «Non ho cercato, in questo libro, di offrire una rassegna della musica del periodo classico, ma di descriverne il linguaggio». Rosen era convinto che il canone dello stile classico fosse il frutto di un linguaggio nato e sviluppatosi nella cerchia di un ristretto gruppo di artisti, che già alla fine del Settecento erano percepiti come una triade indissolubile e distinta dalla massa di musicisti attivi in quello scorcio di secolo. Sono infatti le qualità che li separano dallo sfondo musicale del loro tempo, anziché le caratteristiche che hanno in comune con esso, a rivelare Haydn, Mozart e Beethoven come artisti in grado di forgiare un linguaggio tanto potente da definire uno stile che a posteriori possiamo codificare come classico.

Quando Lo stile classico venne pubblicato in Italia (da Feltrinelli nel 1979) destò scalpore, perché il pubblico italiano non era affatto avvezzo a un rapporto così diretto e immediato con il testo. In fondo erano le stesse ragioni che avevano decretato il clamoroso successo del libro negli Stati Uniti, dov’è considerato ormai una lettura imprescindibile per chiunque si occupi di musica.

Rosen cercava di descrivere in termini accessibili a tutti il linguaggio dello stile classico, attraverso un’ermeneutica che affondava le radici nel corpo vivo dei processi compositivi preposti a governare i principali generi codificati dai grandi artisti viennesi. Nella sua rappresentazione degli sviluppi dello stile di Haydn, Mozart e Beethoven sparivano le categorie care alla critica musicale di stampo storicista, come per esempio la suddivisione della produzione in varie fasi, corrispondenti a diversi gradi di maturità, o gli influssi della musica del tardo Settecento e del primo Ottocento sulle forme trattate dalla triade viennese.

Men che meno, naturalmente, Rosen prendeva in considerazione i fenomeni sociali o gli aspetti psicologici nell’analisi dei lavori musicali, che nella sua visione sprigionano la loro forza espressiva esclusivamente in virtù del valore intrinseco del linguaggio scelto. Questa idiosincrasia per le formule ricorrenti nella musicologia di ascendenza idealistica procurò al libro una serie di obiezioni, alle quali Rosen rispose con l’interessante e ampia prefazione alla nuova edizione dello Stile classico, pubblicata nel 1997. L’ambiente accademico non lo aveva mai accolto a braccia aperte, sia per il carattere irregolare del suo stile che per la commistione, forse ritenuta un po’ sconveniente per uno studioso, con la pratica musicale.

Respingendo le critiche, provenienti da settori vecchi e nuovi degli studi musicali, l’autore precisava meglio i criteri del suo metodo e i contorni della ricerca. L’introduzione non rappresentava però l’unica novità della seconda edizione, che era stata rivista e ampliata in maniera significativa, in particolare con un nuovo capitolo dedicato all’ultimo Beethoven, riletto in maniera magistrale attraverso le convenzioni stilistiche maturate negli anni di apprendistato a Bonn. Rosen dimostra in questo nuovo capitolo, con la consueta dovizia di esempi musicali calzanti, come la forza espressiva del pianoforte di Beethoven «si rivela, nella maggior parte dei casi, non nello sbarazzarsi delle convenzioni che aveva appreso da bambino, ma nell’espanderle ben oltre l’esperienza e le aspettative dei suoi contemporanei».

La tesi di fondo del libro viene ancor più rafforzata dall’analisi della produzione finale di Beethoven, che non rappresenta affatto una sorta di dissoluzione dello stile classico o un ponte verso il nuovo mondo romantico, bensì l’esempio più sublime di fedeltà ai principi del linguaggio di Haydn e di Mozart.

L’assenza di questo capitolo giustifica da sola la decisione di Adelphi di pubblicare ora in Italia la nuova versione dello Stile classico («Fuori collana», pp. 626, euro 65,00), peraltro uscito ormai da anni dal catalogo Feltrinelli. La vecchia traduzione di Riccardo Bianchini è stata rivista a fondo da Gaia Varon, che in pratica ha rimaneggiato il lavoro da cima a fondo, conferendo all’italiano di Rosen una forma più precisa nelle descrizioni tecniche e in generale una maggiore aderenza al linguaggio attuale della musicologia. Rispetto all’edizione originale di Faber&Faber, quella italiana è priva del Cd con l’esecuzione di Rosen della Sonata op. 106 Hammerklavier e della Sonata op. 110 di Beethoven, ma forse non si tratta di una grande perdita. Per il resto, invece, il libro mantiene inalterata quella genuina irruenza dialettica e quella mancanza di compromessi nell’esporre le proprie tesi che avevano fatto tanto amare il lavoro di Rosen all’epoca della sua uscita, una spontaneità che non si è conservata del tutto nelle opere successive, come La generazione romantica o Le forme sonata, inclini invece a osservare le buone maniere della comunità musicologica e più attente a fissare la discussione su basi storiche ed estetiche ineccepibili.

Lo stile classico a volte lascia l’impressione di un ammasso di idee affastellate, in curioso contrasto con i concetti di simmetria, di logica e di economia che presiedono al linguaggio indagato nel libro. Pare che anche l’appartamento di Rosen a New York avesse un aspetto analogo: zeppo di libri, partiture e oggetti provenienti dai più disparati marchés aux puces saccheggiati durante i suoi numerosi soggiorni in Francia. Il disordine tuttavia era anche il segno dell’estrema vitalità del pensiero di Rosen, una fornace alimentata da un continuo consumo di idee, di musica e di citazioni filosofiche e letterarie. Rosen non si lascia sfuggire neppure un passo dello Zibaldone di Leopardi, una lettura assai poco convenzionale nel mondo anglosassone fino a tempi recenti, per stabilire un nesso con le trasformazioni estetiche della musica del primo Ottocento.

A un anno di distanza dalla scomparsa di Charles Rosen, la riedizione dello Stile classico suona come l’omaggio migliore alla figura di questo intellettuale che ha contribuito non poco a emancipare gli studi musicali dalle ingenuità di un legame ancora troppo stretto con il mondo letterario.