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Xing in campo aperto, dalla Live Arts Week

Xing in campo aperto, dalla Live Arts WeekPeng X per Live Arts Week

Incontro A Bologna le opere ibride e poliglotte della decima edizione: una riflessione corale sulle presenze

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 19 giugno 2021

Giunto alla decima edizione, Live Arts Week si insedia fuori mura, in un parco fluviale nel quartiere Barca di Bologna. Un’edizione in «campo aperto», processata alchemicamente nella «fonderia» del festival, accesa insieme a Canedicoda, Cristina Kristal Rizzo, Kinkaleri e Michele di Stefano. L’insediamento, annunciato durante Art City Bologna 2021 all’interno degli orti comunali che introducono al parco, è segnato dall’installazione di maniche a vento di Margherita Morgantin. Peng X come fenomeno meteorologico, espanso nello spazio e nella durata, da oggi fino a domenica 27 giugno.

Una scelta in linea con la ricerca errante di Xing, dedita alla sperimentazione dei dispositivi, ma inedita per la settimana bolognese della performance, che dal 2019 aveva inaugurato una programmazione diffusa nel centro città. Scelta che però non risponde a un’apologia del ritorno alla natura – boy-scout post-clausura – nascendo piuttosto da una constatazione: omicidio! Il pubblico è morto. Traduco, va tolto dall’equazione iniziale, riformulare per non regimentare: «un sistema di presenze, sottrazioni e aggregazioni di varie intensità, non legate all’imperativo di dimostrare».

La fuga dalla città, per insediarsi in campo aperto, non si presenta come palliativo alla necropoli, ma ricezione delle sue condizioni nella riflessione critica dei modelli di presenza e interazione delle live arts. Visite ignare, di chi è giunto al parco di quartiere per un bagno di sole e visite all’erta, di chi ha invece compiuto il viaggio al Reno, per poi incontrare qualcosa di non appropriabile, accidentale, costellato, fatto di disseminazioni e sovrapposizioni, richiami e fughe. L’atto di situarsi come campo – perdere e far perdere il pubblico – non va quindi inteso come negazione, ma interrogazione delle condizioni dello stare, per riformulare l’evento: «nove giorni non sono un tempo da riempire ma uno spazio da dilatare». Il programma si fa diagramma.
Con più di cinquanta artisti e venticinque nuove produzioni, le live arts si declinano in tutta la loro glossolalia: danza, performance e live media assumono diversioni sonore, sonno profondo, derive olfattive, mitologia augmented, traghettamenti, parlottio, pirotecnie, segni, prede, auspici, sdeng! Trovandosi di fronte a, vedendo a distanza, perdendo per strada.

Nuove prossemiche a riposizionare live e pubblico, in un processo di fusione che sembra far slittare le stesse etimologie: esposizione, non più da estrarre e isolare (ex-porre), ma come uscita da quella posizione, «indistinzione». L’Istituto di alti studi coreografici di Michele di Stefano, «pomposamente ma in mezzo alla sterpaglia». Il rincorrersi «come ragazzi selvaggi» di Kinkaleri. Il campo di sguardi di Michele Rizzo, al di là, «spooky». Le coreografie «sticker» e di corpi minerali di Cristina Rizzo. Il «campo aperto» appare contemporaneamente come modello artistico e dei «commons», per operare su regimi di attenzione e convenzioni comportamentali tracciando condizioni in divenire, negoziabili, non normate.

Un’edizione che fa uso della scenografia naturale del sito, della sua atmosfera biofisica, ma anche immaginale. Sono diverse le azioni che trasfigurano lo spazio e il tempo del festival in un live set: le intercettazioni di Zapruder di lingue sconosciute e «stati psichici» collettivi, la cattura notturna di Jacopo Benassi, la civiltà sul greto di Alessandro di Pietro e il punto di vista sul campo di Lele Marcojanni, trentasei ore di live streaming per una documentazione a perdere.

Un festival dunque solo apparentemente unplugged, «senza infrastrutture» ma ondivago: dalla casa-strumento di Canedicoda alle intermittenze di Invernomuto e l’orecchio di StandArs. Insediamento nomade e «self standing» – come il cinema mono-tenda di Eleonora Luccarini – allacciandosi ai telefoni di chi è in visita per trasmettere la realtà aumentata di Francesco Cavaliere.

Essere-a-perdere è aprire il campo del possibile – «mettersi l’anima in pace», dalla complessità contingente – festosamente. Live Arts Week X inaugura con una festa simbolo di questo «potlach delle arti viventi» (giocare a perdere e sfidare a farlo): in «garage» la fonderia ha forgiato un UFO che per fluttuare chiede di entrare a far parte della sua «bar/band».

Che cosa può un corpo? è la domanda etica posta da Deleuze a cavallo degli anni Ottanta, una domanda incorporata dalle arti performative, che non poteva non implicare, per chi opera nella loro disseminazione, l’urgenza di interrogare i corpi senza doverne governare le risposte. Se il pubblico delle live arts può essere evocato solo quale fantasma da dispositivi pre-pandemia, il campo diviene allora sito per riformulare – da leggere: fondere per rifondare – i propri modelli e con essi la domanda: che cosa può un corpo? «Abitare senza abituarsi, derubricarsi dall’appartenenza, includere clandestinamente e sparire».

Xing dis tende il proprio attraversamento delle live arts (21 anni dalla fondazione), in una dépense che coinvolge compagni di viaggio di lungo corso ma anche giovani autorialità, le cui pratiche non ha mai smesso di frequentare. Molti i nomi che segnano i confini sperimentali della scena performativa italiana in ambito internazionale, chiedo voce anche ad alcuni di loro.

Nell’ideazione dell’evento sin da subito si è posta la necessità di evitare sistemi rigidi, pensare piuttosto a una «nuvola» di interazioni, a un fenomeno meteorologico. Cosa significa confrontarsi con il «campo aperto»?
Kinkaleri: Significa confrontarsi con l’abbandono, con l’idea di poter essere pronti ma non preparati agli eventi, anche nel caso in cui essi siano previsti, ma di cui nessuno giurerebbe della loro esistenza.
Xing: Il fenomeno meteorologico ha un grado di complessità e irregolarità non pianificabili. Questa edizione di Live Arts Week è pensata per allontanarsi dalle esperienze di contenimento.
Insediarsi sulle rive di un fiume non asseconda un’ideale pastorale della natura; viviamo in ecosistema abitato anche da tecnologie portabili e auto-sufficienti. Live Arts Week sarà un gioco ecoico, che riverbera il crepitìo di un fuoco che sta bruciando poco a poco questo oikos in cui pretendiamo ancora di abitare.

Live Arts Week quest’anno si distende nello spazio e nella durata. A quali forme dell’attenzione si dedica la vostra ricerca in questa edizione?
Michele di Stefano: È un’occasione per indagare, capire o forse fraintendere del tutto la postura dell’intimità, il passaggio successivo rispetto alla prossimità tanto desiderata tra corpi. La immaginiamo come una condizione non psicologica né interiorizzata, qualcosa che paradossalmente nella sua profondità ha a che fare con la collettività sparpagliata che immaginiamo attraversare il territorio non perimetrato di Peng X. Quanta intimità c’è nella savana?
Cristina Rizzo: «Per me ha valore di presenza e di affermazione appoggiare tutto a peso massimo in un punto, lasciar accadere un consuetudinario di danze o angoli virtuali. Per questo intravedo una danza che possa ripetersi tutti i giorni, sempre uguale a se stessa e sempre diversa, in un posto abitato da altri corpi, quindi già intensamente sporco di segni. Centrare lo sguardo, assumere l’opacità di qualcosa che si muove davanti a qualcun altro, sovrapporsi come uno sticker sopra altre immagini senza cancellare o nascondere, aggiungere tatuaggi diversi a viva pelle. Ma anche giochi pirici di luce e suono per un rituale che infiammi l’aria e consumi le micce. E poi corpi che dormono, lasciati cadere in un sonno artificiale non riparatore, per finalmente stare tutti fermi – Dissolvenza – Dissoluzione – Simulazione d’intimità.
Kinkaleri: Nello spazio e nella durata, nella scintilla e nel contatto, nell’incontro e nello scontro, nella deviazione e nell’incrocio, nel sapere e nell’incoscienza, nel desiderio e nella noia, nel bere e nel danzare, nello scorrere e nel rotolare, nello scoiattolo e nella carpa, nel fumo e nel fuoco d’artificio, nell’ascolto di strati di suono.

Situarsi non assumendo a priori il pubblico è stato un punto di partenza per poterne interrogare il corpo senza doverlo regimentare. La performance può insediarsi al di là del pubblico?
Michele di Stefano: Si certo, il pubblico è anche una concentrazione temporale, dissolvere l’appuntamento e renderlo quasi incidentale vuol dire fare sempre riferimento a un prima e ad un dopo proprio durante la performance, e questo è interessante per la condizione corporea della danza.
Di là dal fiume e tra gli alberi è il titolo di un romanzo di Hemingway, immagino vada bene anche per una performance.
Michele Rizzo: «Credo che bisognerebbe prima di tutto individuare una differenza tra sguardo e pubblico. Non c’è azione performativa che possa prescindere uno sguardo (sia esso anche considerato in senso metaforico, come destinatario dell’indirizzo). Che lo sguardo provenga da un estraneo, da un* altr* performer, o dal* performer stess* verso se stess*, non importa. Lo sguardo c’è e rappresenta un atto di responsabilità, in quanto dona dignità di esistenza a ciò su cui esso si posa. La spazio-temporalità di Peng X rappresenta l’opportunità di esercitare il proprio sguardo in maniera alternativa. Liberare lo sguardo dalla prospettiva obbligata della platea, così come dalla durata scandita dal buio di sala e dagli applausi, ne conferisce un ruolo attivo, curioso.
Quanto al pubblico, probabilmente i due anni passati ci hanno insegnato che il pubblico resiste sempre, si trasforma per adattarsi a metodi di trasmissione differenti. Il pubblico è oggi più che mai un’entità fluida. Dunque è in piena coerenza con l’attuale realtà immaginare di poter lasciare che il pubblico accada, piuttosto che accadere per il pubblico. Io spesso considero la performance o la danza, in termini di scultura. Esiste dinanzi agli occhi del pubblico, ma vive di un esistenza sospesa tra memoria e concetto nel momento in cui esso è assente.

Il campo si presenta come un modello contemporaneamente artistico e aggregativo, tra «vecchia normalità» e «nuovo regime». Avete sentito il bisogno di ritrovarvi per disarticolare e generare alternativa?
Cristina Rizzo: Credo che l’immaginazione di questo campo sia andata molto più avanti dei nostri possibili desideri, intendo dire che ritrovarsi ad abitare artisticamente insieme un luogo ci è sembrato all’inizio una specie di impossibile punto di convergenza, una pura illusione di comunità. Questo spazio è aperto e tale va lasciato, così che le cose, gli oggetti artistici e le aggregazioni possibili possano evolversi in un quotidiano che sembra non esistere più, ma anche permettere allo sguardo di un corpo di abbandonarsi tra l’erba alta, curarsi semplicemente respirando. Più che generare alternativa, direi costituire un dominio libero anche se solo per una settimana, disinnescare il ‘regime delle arti’ e non pensare più al Festival come a un Festival, questo è già un tentativo per essere nuovamente una moltitudine.
Kinkaleri: Generare alternativa è forse l’elemento unico che unisce ognuno dei singoli partecipanti, a partire da Xing fino agli inviti proposti e alle collaborazioni a cascata che si sono attivate e altre che si potranno generare direttamente sul campo. Direi anche che non è mai stato un obbiettivo quello di disarticolare o generare alternativa, ma uno stato mentale che ognuno ha espresso nella sua storia e che esprimerà a modo suo senza averlo come obbiettivo. Credo che, come spesso accade, sarà solo dopo quel tempo e quello spazio condiviso, che potremo provare a fare un racconto, una analisi di quello che è successo».

 

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Qui il programma di Bologna Live Art Weeks

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