«Wozzeck», glaciale allucinazione espressionista
Opera Il festival d'Aix-en-Provence ha insistito affinché Simon McBurney dirigesse l'opera di Berg, nonostante la produzione fosse stata rimandata causa pandemia. Una scelta ripagata
Opera Il festival d'Aix-en-Provence ha insistito affinché Simon McBurney dirigesse l'opera di Berg, nonostante la produzione fosse stata rimandata causa pandemia. Una scelta ripagata
Con la crudeltà innocente e disinvolta propria dei bambini, i compagni di giochi del figlioletto di Wozzeck gli urlano che sua madre è morta. Poi, tra scherno e eccitazione, tutti corrono via nella luce fredda del mattino e l’opera si chiude. Il finale è l’unico momento in cui Wozzeck non è in scena nella produzione dell’opera di Berg vista al Festival di Aix-en-Provence, affidata alla direzione di Simon Rattle. Per il resto del tempo, prima di affogare nel lucido lago nero del palcoscenico del Grand Théâtre de Provence, Wozzeck è costantemente presente, in uno spettacolo che nella tensione dei singoli quadri dispiega il racconto di un’allucinazione generata dalla mente del protagonista. La regia di Simon McBurney è stata testardamente voluta e ripresa dal festival dopo la cancellazione causata gli anni scorsi dalla pandemia, anche a costo di annullare la co-produzione con Londra, dove poche settimane prima Antonio Pappano ha in effetti diretto un diverso allestimento dell’opera con il medesimo protagonista, il baritono Christian Gerhaher.
DIFFICILE non condividere la scelta, visto che McBurney è un regista di grande finezza che nelle sue rare regie d’opera si impegna a utilizzare le proprie qualità e esperienze non per affermare il proprio ego e sovrascriverlo sulla drammaturgia musicale ma per metterlo al servizio della lettera del compositore. Il festival offre peraltro un immediato confronto con un’accezione diversa della regia operistica nell’allestimento dell’Opera da tre soldi di Brecht-Weill in versione francese curata da Thomas Ostermeier. Eppure quest’ultima, sovrabbondante e verbosa, la vedremo su molti palcoscenici europei nell’anno che verrà, mentre non sappiamo se e quando la regia di McBurney verrà ripresa.
UN PALCOSCENICO vuoto, tre anelli girevoli mossi quasi costantemente al centro della scena modificando le velocità o invertendo i sensi di marcia, era tutto ciò che serviva al regista per costruire, quadro per quadro, le diverse stazioni dell’annullamento del protagonista, in perfetta assonanza con la partitura: il gabinetto del medico che infligge a Wozzeck le sue sperimentazioni, le scene di taverna affollatissime e colorate con l’asprezza acida di Grosz e Beckmann, la camerata della caserma magnificamente suggerita dalle file di cuscini sapientemente illuminati da Paul Anderson, mentre le scene sono di Miriam Buether e Christina Cunningham firma i costumi. In un attimo ogni quadro svaniva con cantanti e mimi che trascinavano via i vari oggetti, lasciando desolata la scena. Gerhaher trova in Wozzeck uno dei suoi migliori personaggi: i cospicui mezzi vocali e uno scavo preciso ma mai manierato sulla parola conferiscono alla parte statura e intensità eccezionali. Disperato e glaciale nella violenza verso Marie, intontito dalle umiliazioni inflittegli dal Capitano, dal Dottore e dal Tambur Maggiore – gli ottimi Peter Hoare, Brindley Sherrat, Thomas Blondelle – Gerhaher crea un Wozzeck dal piglio contemporaneo, pur rispettandone la matrice espressionista. Altrettanto straordinaria la Marie tagliente di Malin Bystrom, che aggiungeva alla parte una grazia seducente. Simon Rattle si serviva dello strumento pressoché perfetto della London Symphony Orchestra per costruire una narrazione dalla tensione implacabile, occasionalmente attraversata da languori fin de siècle e lumeggiature mahleriane, sempre attenta al rapporto fra buca e palcoscenico. Lungo l’applauso finale, al tempo stesso emozionato e liberatorio.
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