Visioni

Wora Wora Washington, visioni elettroniche dallo spazio

Wora Wora Washington, visioni elettroniche dallo spazioWora Wora Washington

Musica Arrivata al terzo disco, la band veneta dimostra ora più che mai una forte personalità. «Stiamo seguendo un percorso musicale che è anche ovviamente parte di un nostro percorso esistenziale»

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 13 maggio 2017

Arrivati al terzo disco, i veneti Wora Wora Washington dimostrano ora più che mai una forte personalità, capaci di distinguersi per originalità ed efficacia da moltissime produzioni un po’ troppo incensate. Il mix di elettronica, new wave, umori dark, le liriche visionarie di Giulia Galvan (poetessa chiamata a scrivere i testi dalla band), rendono Mirror (uscito a fine 2016 per Shyrec) un album non solo imperdibile, ma innovativo per la sua capacità di ridefinire i confini di un genere. E sembrano tanto più appropriati i temi affrontati nel disco, la fascinazione per lo spazio, il rivolgersi al futuro, inteso come scoperta, come apertura di possibilità infinite, come tentativo di esplorare mondi nuovi (anche per quanto riguarda l’uso degli strumenti). Non a caso nel brano dedicato all’astronauta tedesco Alexander Gerst i Wora cantano «Can see no walls no limits no borders», e questa sembra una delle migliori descrizioni possibili del loro lavoro in musica.

«Stiamo seguendo un percorso musicale che è anche ovviamente parte di un nostro percorso esistenziale» spiegano Marco De Rossi e Giorgio Trez, rimasti in due dopo l’abbandono di Matteo Scarpa (che ha deciso di dedicarsi full time ai suoi Kill Your Boyfriend, compagni di etichetta). «Dunque proporre cose già fatte prima non ha alcun senso per noi. Quando fai un disco, fissi quel momento esatto, esprimi ciò che sei in quel frangente. Non si può rimanere fermi. Quindi per rinnovarci per la terza volta abbiamo avuto bisogno di cambiare tutto».

Rispetto all’immediatezza del primo Techno Lovers e alle raffinate strutture del precedente Radical Bending, in quest’ultimo lavoro sembrano prevalere i toni cupi, oltre che un’atmosfera da paesaggio post-industriale (e la provenienza del duo ovviamente conta, quel Nordest ora enorme monumento al ricordo del miracolo che fu) che si riflette in un’elettronica oscura ed emotiva. «È venuta fuori quest’anima più evocativa, forse un po’ new wave se vuoi, ma nel senso di aspetto emozionale, di qualcosa che va a toccare con poche note la sensibilità di chi ci ascolta. Nello studio in cui abbiamo registrato lo scorso disco ci hanno detto che siamo barocchi, che mettiamo troppa roba nei nostri pezzi. Ma questa è una nostra caratteristica, quella di stratificare la musica per farla crescere, spegnere, sovrapporre i suoni per ottenere questo impatto emotivo».

Complessità che il gruppo ha sempre reso alla perfezione nei concerti live, la cui preparazione ha richiesto un enorme sforzo dopo l’abbandono di Scarpa. «A livello di gestione di un live è cambiato tutto, dovevamo coprire il ruolo che aveva Matteo (che suonava chitarra e basso) e abbiamo pensato di passare a tutto elettrificato, compresa la batteria che appare come una batteria acustica ma in realtà è tutta elettronica. Cambia totalmente il modo di suonare, la cosa ci ha spaventato un po’ all’inizio, abbiamo dovuto reimparare tutto. D’altro canto in due c’è sicuramente più libertà e dal punto di vista artistico ci siamo divertiti parecchio».

Ed è forse proprio questa assoluta libertà il punto di forza della band, una delle realtà più interessanti oggi in Italia. «Ci avessimo messo un anno o dieci per noi sarebbe stata la stessa cosa, l’importante era fare qualcosa che piacesse a noi. In fondo il tema principale che affrontiamo nel disco è di essere se stessi, in tutte le cose che si fanno. Al giorno d’oggi si vive molto per stereotipi, soprattutto in musica, e per noi è una cosa incomprensibile. Per noi suonare è una necessità, in questo momento della nostra vita, ci serve per esprimere quello che siamo».

 

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