Woolf, piccoli eventi scintillano
Alias Domenica

Woolf, piccoli eventi scintillano

Roger Fry, The Breakfast Table, 1918 ca., Aberdeen Art Gallery

Gli anni 1915-1919 Facce, parole, suoni, colori, passeggiate, le due case di Richmond... Tutto appare vibrante e trafitto da uno spillo: «Diari» di Virginia Woolf, Bompiani

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 20 novembre 2022

A chiunque si affacci dal castello normanno che domina la cittadina di Lewes, in Sussex, non sfuggirà tra gli edifici sottostanti una costruzione eccentrica arrampicata in cima alla collina. È rotonda, il tetto di ardesia suddiviso in otto spicchi. Sulla parete prossima alla strada sono murate due targhe. La prima informa che la casa fu costruita come mulino nel 1802; la seconda che nel giugno 1919 venne acquistata da Virginia e Leonard Woolf. In realtà a prenderla «su due piedi» fu lei, trascinata da un «desiderio» ardimentoso per quelle «stanze piccole» e «il panorama» e «l’ampio salotto»; per la «bizzarria in senso lato e il carattere dell’insieme». Un’«ombra di disincanto» velerà presto l’«eccesso di ottimismo», se alla visita successiva la casa non le sembrerà più tanto «radiosa e irraggiungibile». Il 3 luglio, quando racconta questo episodio nel suo diario, la scrittrice ha già comprato un’altra casa: Monk’s House, nel vicino abitato di Rodmell. A metà mese la Round House sarà ormai stata rivenduta.

La fantasia della casa rotonda, forse la sua ossessione, sembra tuttavia distendersi a ritroso sull’intero primo volume dei Diari, edito in Inghilterra dalla Hogarth Press nel 1977 (gli altri quattro usciranno più o meno ad anni alterni fino al 1984), introdotto dal nipote Quentin Bell e curato dalla moglie di lui Anne Olivier, ma disponibile soltanto adesso in italiano grazie al coraggio editoriale di Bompiani («Overlook», introduzione di Mario Fortunato, traduzione e cura di Giovanna Granato, pp. XXXIII – 455, € 28,00). I quaderni su cui Virginia Woolf ha composto il suo diario, esclusi quelli redatti durante l’adolescenza, si estendono tra il 1915 e il 1941: l’ultima annotazione risale a quattro giorni prima della morte. La scrittrice vi si dedicava solitamente nel pomeriggio dopo il tè; non ogni giorno, i salti si spingono spesso da una settimana all’altra e anche oltre: di tutto il 1916, in concomitanza con una delle sue più violente crisi mentali, non resta nemmeno un appunto.

Sono in parte quaderni acquistati in cartoleria, per il resto cuciti e copertinati appositamente per lei quando non da lei stessa. Oggi si conservano nella Berg Collection della Public Library di New York. Di norma per ogni anno sussiste più di un quaderno: l’autrice ne teneva infatti uno nell’abitazione di città e uno in quella di campagna. Il primo volume comprende il periodo fino al 1919, così dalle sue pagine si sprigionano i differenti odori, anche le diverse atmosfere delle due case di Richmond, all’inizio 17 The Green e poi Hogarth House, come delle due in Sussex, la molto amata Asheham House e appunto Monk’s House, da cui il 28 marzo 1941 sarebbe uscita per lasciarsi affondare nell’Ouse con le tasche piene di sassi.

«Ma che ne sarà di tutti questi diari, mi sono chiesta ieri. Se morissi, Leonard cosa ne farebbe? Non gli andrebbe di bruciarli; non potrebbe pubblicarli. Bene, ne dovrebbe fare un libro, penso; e poi bruciarli. Direi che c’è un libretto qui, se si mettessero un poco a posto i pezzi e i bocconi» scriverà il 20 marzo 1926 in una pagina che figura a stampa nel terzo volume, fino a oggi l’unico apparso integralmente in italiano, curato da Bianca Tarozzi per Rizzoli nel 2012 con l’intento di illuminare il periodo culminante dell’attività letteraria woolfiana. Seguendo il nemmeno troppo implicito suggerimento della moglie, Leonard Woolf ricaverà dai diari nel 1953 non un «libretto» ma un vero «libro», ne ritaglierà «pezzi» e «bocconi» per cucire insieme, lo anticipa il titolo Diario di una scrittrice, le annotazioni che pertengono esclusivamente alla vita della scrittura. La scelta, tradotta da Mondadori nel 1959, falcidia più impietosamente proprio gli anni iniziali: le pagine afferenti al volume Bompiani costituiscono solo un decimo del libro.

Cosa racconta allora Virginia Woolf in questi suoi primi otto quaderni, se i libri letti e gli articoli scritti per il «Times Literary Supplement» e perfino l’uscita del romanzo d’esordio e la stesura del secondo lampeggiano via come stelle comete? «A Garsington mi sono tanto vantata di questo diario e del fascino di compilarlo attingendo a una fonte inesauribile che mi vergogno di saltare dei giorni; eppure ribadisco che la sua unica speranza è dipendere dagli umori di chi lo scrive. Ottoline ne tiene uno, a proposito, dedicato però alla sua “vita interiore”; e questo mi ha fatto pensare che io una vita interiore non ce l’ho» osserva il 22 novembre 1917. Si tratta naturalmente di un gioco, tuttavia è vero che la «vita interiore» balugina nel diario solo in funzione di lente per mettere a fuoco l’esistenza che le vortica attorno.

Come se il lettore la inseguisse dentro la luce mutevole della giornata attraverso le minuscole stanze della casa rotonda, o come se si accomodasse con lei al centro del vasto salotto tenendo d’occhio ogni finestra, queste pagine compongono davanti al suo sguardo una girandola di immagini proiettate in un interno. Facce, parole, suoni, colori, profumi: tutto vi appare vibrante e insieme trafitto da uno spillo. Le chiacchiere con gli amici di Bloomsbury, l’acquisto di un paio di occhiali, le passeggiate a Londra o in campagna, gli incontri per la Lega delle donne, un bisticcio con la sorella Vanessa, il lavoro al torchio per la neonata Hogarth Press, le discussioni con la cuoca, una visita a Katherine Mansfield ammalata. Ogni piccolo evento quotidiano scintilla respingendo in penombra il bagliore che presiede alla stesura di racconti come Kew Gardens o saggi come Modern Novels, primi baleni della sua esplosiva sperimentazione modernista. Il proprio snobismo, la sensibilità verso le differenze sociali, l’orgoglio dell’appartenenza per nascita a una classe. Niente sfugge al suo occhio indagatore. Osserva come da una soglia accedendo nello stesso istante a due visioni: lo scambio tra ombra e luce abbaglia chi entra nel suo mondo.

«Perché, si chiedeva, doveva esserci questo perpetuo divario tra il pensiero e l’azione, tra la vita solitaria e la vita di società, tra le due sponde di questo tremendo abisso, per cui di qui lo spirito era attivo e chiaro come il giorno, di là contemplativo e scuro come la notte?» riflette la protagonista del secondo romanzo Notte e giorno. La «sfrenata, imprevedibile andatura galoppante» che l’autrice imprime al proprio diario, i «diamanti» che vi brillano sparpagliati con caleidoscopica grazia, avrebbero tuttavia richiesto strumenti più precisi per illuminarne la lettura. Rimangono oscuri i criteri che informano l’allestimento di una bibliografia tanto lacunosa. Né si comprende l’assenza di una notizia descrittiva e storica sui diari, di cui mai si menzionano la prima edizione inglese né in forma diretta i curatori. Perché il lettore è costretto a districarsi tra quattro paratesti diversi per cercare un’informazione che spesso non trova? Perché gli risulterà impossibile reperire gli estremi delle molte recensioni che Woolf scrive per i giornali? In fondo sarebbe bastato usare con parsimoniosa accortezza l’apparato originale invece di saccheggiarlo a caso rischiando magari di inciampare (è proprio vero che Preludio di Katherine Mansfield era «già stato stampato due volte» prima del 1918 o non si tratta piuttosto del terzo racconto pubblicato dalla Hogarth Press?). Né il testo woolfiano si salva da scivoloni filologici come l’abolizione delle parentesi quadre usate nell’edizione inglese per indicare una porzione reintegrata, l’arbitraria difformità nella traduzione dei titoli, l’omissione di qualsiasi segnale relativo al passaggio da un quaderno all’altro.

Verso metà del libro il lettore depone ogni curiosità e si abbandona alla scrittura. Finalmente respira. Cede, come l’autrice avrebbe voluto, al flusso cangiante della vita. «Vale la pena continuare? Il problema è che se continuo per un altro annetto, poi non potrò più tirarmi indietro. Mi domando perché lo faccio. In parte, credo, per la solita sensazione che il tempo mi sfugge di mano» annotava il 7 ottobre 1919, appena due settimane prima dell’uscita di Notte e giorno, esponendo in piena luce la necessità che governa la stesura dei diari. Fermare la vita prima che diventi memoria. Chiuderla a chiave in una stanza.

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