Erede di una lunga tradizione di deportazione, schiavitù, lotta e liberazione, Jacqueline Woodson, Premio Hans Christian Andersen e National Ambassador for Young People’s Literature, nasce e cresce negli Stati Uniti, arricchendo la sua immaginazione e il suo amore per la parola sin da piccolissima con le storie della nonna, quelle della sua ramificata famiglia, i Movimenti per i diritti civili. In Bambina nera sogna (Fandango, pp. 338, euro 20), riconnette la sua esperienza personale alle tante storie del suo popolo arrivato schiavo nella «terra delle libertà», in una fitta trama di legami familiari ed eredità culturali, riecheggiando le grandi voci della narrativa afro-americana da Toni Morrison a James Baldwin e Langston Hughes.

Come possiamo definire stilisticamente il suo «Bambina nera sogna», è corretto considerarla una sorta di autobiografia in versi?
Sì, è un memoir scritto in versi. Ho scelto questa forma perché si tratta di memoria. La memoria non ci raggiunge mai in lunghi capitoli. Sopraggiunge in piccoli momenti. Lo spazio bianco attorno alle parole simboleggia ciò che non viene ricordato, o non è ancora scritto.

Nel memoir lei dice che da bambina leggeva lentamente per far durare la narrazione il più a lungo possibile e sottolinea l’importanza dell’ascolto perché anche il silenzio ha una storia da raccontare. Quanto la sua esperienza e la sua scrittura sono vicine alla tradizione orale nera americana?
Io sono Nera, quindi le mie storie vengono necessariamente da quella mia esperienza, come da altre. La tradizione orale è arrivata con il nostro popolo dai molti paesi africani da cui sono stati deportati (durante i secoli della tratta atlantica, ndr). Negli Stati Uniti ai miei antenati non era permesso di imparare a leggere e scrivere – era contro la legge. Per cui si affidarono alla tradizione orale per ogni cosa, dalla trasmissione della storia familiare all’elaborazione di piani per evadere dalla schiavitù. Le mie storie vengono anche dai tanti scrittori che ho letto durante l’infanzia che poi da adulta.

Leggendola, non si possono non ricordare testi fondamentali di Toni Morrison come «L’occhio più azzurro» e «Amatissima». Quanto questa pioniera (premio Nobel nel 1993) è stata di ispirazione per lei e per gli artisti e narratori della sua generazione negli Usa? Quali altri autori ammira particolarmente?
Non credo possa esistere un solo scrittore nero vivente che non sia stato ispirato da Toni Morrison. Ho letto L’occhio più azzurro per la prima volta intorno ai dieci anni. Rileggerlo successivamente (quando ero diventata in grado di capirne veramente il messaggio) è stato al tempo stesso devastante e illuminante. Un altro grande modello per me è sempre stato James Baldwin. La lettura del suo Se la strada potesse parlare, come giovane che stava crescendo a New York City, mi ha fatto capire l’importanza e il «posto» delle mie storie personali nel mondo.

Il sogno di sua nonna, grande affabulatrice, era quello dell’«uguaglianza nella terra della libertà», e lei era una bambina negli anni Sessanta e Settanta durante i movimenti civili contro la segregazione razziale. Vi è stata personalmente coinvolta? Qual è la situazione attuale?
Ero appunto una bambina e poi una ragazza molto giovane al culmine del movimento. Decisamente troppo giovane per potermi «unire e marciare». Ma l’ho respirato e mi ha formata in tutto ciò che sono e scrivo. La lotta per i diritti civili prosegue ovunque – dagli Stati Uniti all’Italia all’Ucraina. In ogni luogo e paese, ci sono persone che lavorano duramente per conquistare qualche forma di diritto civile.

In apertura, lei cita i versi di Langston Hughes: «Hold fast to dreams/ For if dreams die/ Life is a broken-winged bird». Qual è il suo sogno personale o la sua futura speranza?
Spero che le persone inizino a capire veramente quanto il loro comportamento abbia un forte impatto sugli altri (e speravo che la pandemia ce lo avrebbe dimostrato!), dalla salute pubblica al cambiamento climatico, alla sicurezza quotidiana. Credo che i giovani ne siano consapevoli. Sono gli adulti che, talvolta, mi preoccupano.

L’idea di casa – sentirsi a casa o tornare a casa – è una tra le più ricorrenti nella sua opera. Dove o cosa è «casa» per lei?
Viaggio molto, e ogni posto in cui vado diventa in qualche modo parte di me stessa e quindi della «mia casa» – anche solo attraverso la memoria. La mia vera casa è a Brooklyn, New York. Abbiamo anche una dimora fuori città, in campagna. Per diverse ragioni, ciascuno di questi luoghi mi riconnette con quel concetto.
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In Italia, per la prima volta, per presentare «Bambina nera sogna», Jacqueline Woodson sarà a Più libri più liberi il 10 dicembre con Igiaba Scego (ore 17,30, sala Elettra), poi il tour continuerà a Pistoia e Milano.