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Wolf, uno stupido vincente

Wolf, uno stupido vincenteLeonardo Di Caprio

Wolf of Wall Street Il film di Scorsese ovvero la bio di un’immaginario a rovescio

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 23 gennaio 2014

In una delle ultime scene, quando tutto comincia a andare male, la moglie bionda e patinata – è la seconda – «bellisima» l’aveva definita lui nelle sequenze iniziali, lo molla. Mentre Jordan Belfort, ormai clean – che agli inizi del loro amore sniffava coca tra le sue tette – cerca disperato nel cuscino del divano la sua riserva di droga. Di Quaalude ormai neanche a parlarne. «Baby baby» singulta quasi impazzito, mentre lei dichiara che gli toglierà tutto, casa e figli, un istante dopo averci scopato per l’ultima volta. Non è una Dark lady la ragazza, e ne ha sopportate parecchie dopo che da amante è diventata moglie. Però Belfort era la sua puntata in borsa, forse anche lui una penny stock…

The Wolf of Wall Street si ispira all’autobiografia di James Belfort, che da centralinista alla LF Rothschild, dopo il lunedì nero della Borsa (’87) col quale sembra dire per sempre addio ai suoi sogni di broker, diviene plurimiliardario truffando migliaia di persone con il sistema delle azioni a basso costo. Lui stesso parlando in macchina si presenta, e dà voce ai suoi pensieri, anche i più segreti, per condividerli con «noi«, il pubblico ma anche i potenziali creduloni pronti a farsi fregare nel miraggio di un po’ di ricchezza.

L’incipit glielo da un magnifico Matthew McConaughey invitandolo a un pranzo di Martini cocktail – uno ogni sette minuti – e cocaina. Strafare. Strafarsi. Per tenere il ritmo, ma soprattutto per rilanciare. E Jordan – impeccabile DiCaprio – rilancia. Assoldando degli altri « sfigati« come lui, pronti a tutto. L’azienda prospera, in ufficio si fa di tutto: si scopa, si sniffa, si urla, si lanciano suoni beluini e gutturali come un manifesto primordiale, al punto che Jordan assume il padre per fare un po’ d’ordine. L’adrenalina è tutta virile, con quell’omoerotismo che contiene la frase «tra uomini», e si estende e sullo stesso piano alle donne. Il fatto è che il fantasma agitato da Jordan è quello fondante il mito americano: il farcela da sé, l’orizzonte in cui ognuno può essere ricco e felice.

Belfort brandisce le radici dell’America, i padri pellegrini, o le zattere da Haiti, non importa come sei arrivato, e chi sei, ma puoi farcela. Come la sua migliore socia, che quando lo ha incontrato era una ragazza madre senza soldi per l’affitto, e lui ci ha creduto dandole subito un assegno di 25mila dollari. É il momento sentimentale, da lacrimuccia, se non fosse che dentro c’è subito la graffiata dissacrante: quel grido animale che sopraffà chi resta indietro, e lascia sognare chi sta dall’altra parte.

Eppure non si può non provare simpatia per Belfort nella sfida con l’antipatico agente Fbi che sfodera il suo essere integerrimo. Ma è quello che vuole Scorsese, e per questo ci trascina nella corsa, nel respiro di un film senza tregua. Nella farsa greed di un capitalismo aggressivo, obeso, esploso, che si libera delle sue tossine come Belfort con un succo d’arancia la mattina dopo gli eccessi. Per ricominciare subito dopo.

Qualcuno ha rimproverato al regista il fatto di non parlare delle vittime, o di non dare giudizi sul protagonista. Ma non è la bio dell’uomo Belfort, nonostante appunto la prima persona della narrazione che mette al centro il regista. É piuttosto cosa Belfort incarna, l’immaginario profondo che esprime al di là di sé la materia grandiosa – e sontuosa – del film. Un affresco sull’America, e sui suoi miti demitizzati, perché Belfort sarà pure miliardario ma non sa essere lucido, sceglie degli stupidi come soci che per quanto abili a vendere lo mandano a fondo. Non è dell’ambiente – glielo rimprovera anche l’agente testone – come non lo era Gatsby, ma quella era un’altra storia. Qui di romanticismo non ce ne è, c’è il nostro tempo senza eroi. Dove Belfort è un piccolo sogno segreto, il lusso che tutti (o quasi) sarebbero pronti a cedere per garantirsi. Basta poco per farcela no?

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