Un «concept» – le aspirazioni sono la parte migliore di noi stessi – che fa pensare alla Pixar degli anni d’oro per un’operazione di marketing che sembra ideata da un AI di bassa categoria. La Disney festeggia il centenario con un cartoon di Natale che dovrebbe celebrare la magia dei desideri e dell’immaginazione, insieme alla gloriosa storia dello Studio di Walt. Purtroppo, Wish, come lo specchio della matrigna di Biancaneve (uno dei tanti classici citati nel film di Fawn Veerasunthorn e Chris Buck) riflette immagini più sinistre: un vuoto d’ispirazione quasi totale e un’anima cinica, svogliata, che non solo rendono poco onore alla tradizione pionieristica e alta dell’animazione Disney ma confermano la crisi d’identità di quella che è stata per decenni una fertile macchina d’immaginario, globalmente riconoscibile e altrettanto globalmente amata.

«DISNEY è un linguaggio. Lo parliamo ancora?» è il titolo di un articolo di Alissa Wilkinson pubblicato sul «New York Times» di qualche giorno fa, in cui si mette in dubbio la viabilità, oggi, della Disney Magic. La domanda è legittima e l’articolo di Wilkinson ha degli aspetti interessanti, oggi Disney è una cordata di brand per lo più multimiliardarie (oltre ai Walt Disney Animation Studios: LucasFilm, Marvel, Pixar, 20th Century Studios, Searchlight…), anni luce lontano dalla nozione coesa delle origini. Cosa è rimasto dell’utopia del fondatore?

Ma il problema di Wish non è che l’universo di principesse, principi, maghi, animali parlanti e adorabili personaggi di spalla a cui Disney ci ha abituati (e che oggi confeziona gender-ed-etnicamente-corretti) qui risulta troppo obsoleto per far presa emotivamente e culturalmente parlando. Quanto la mancanza di investimento creativo e artistico che trasuda il film, unita all’assenza di quella cura artigianale – dell’elemento pittorico, dei dettagli dei personaggi, del disegno e dei movimenti – che così a lungo ha distinto la Disney dalle altre factory di animazione. Invece abbiamo un plot generico, ambientato in una versione angolosa e vagamente spagnoleggiante del Magic Kingdom, in cui un mago/re fintamente benevolo custodisce i desideri dei suoi sudditi nella cupola del suo palazzo, racchiusi in bolle trasparenti, decidendo una volta all’anno quale unico desiderio soddisfare. L’importante è che sia un desiderio moderato, come cucire dei bei vestiti, e non potenzialmente «pericoloso» perché troppo vasto, come ispirare i giovani con l’arte.

IN ATTESA che i loro desideri vengano o meno soddisfatti, gli abitanti del reame di Rosas vivono un’esistenza pseudodepressa. A scuoterli dalla trance, sventando la dittatura dell’immaginario del re stregone, di cui inizialmente vuole diventare «apprendista», penserà l’intrepida Asha (una versione popolana e smorfiosa della classica principessa, con il profilo della sirenetta), con l’aiuto di una stella come quella a cui suggerisce di affidare i propri sogni il grillo di Pinocchio nella famosa canzone dei credits d’apertura del classico targato 1940.
E così via – nei dialoghi e nei personaggi, però grossolanamente aggiornati all’era digitale, incluso il topo di Cenerentola, i funghi canterini di Fantasia, il coniglio di Bambi, e Peter Pan… – le citazioni si sprecano, più o meno ovvie in questo frullato della «formula», che evoca la stessa autenticità delle imitazioni Rolex e Vuitton in vendita sulla newyorkese Canal Street.