Winspeare e la casa delle donne
Al cinema Accanto al Salento della movida e della taranta, il regista racconta quello colpito dalla crisi globale
Al cinema Accanto al Salento della movida e della taranta, il regista racconta quello colpito dalla crisi globale
In una terra del Salento non toccata neanche dalla peste nel seicento, appena sfiorata dalla guerra, un vero mondo a parte dimenticato fino a poco tempo fa è arrivata invece la crisi globale. A dispetto della vacanza da cui non si può prescindere, della sua musica unica, dei suoi luoghi sfolgoranti scelti come set cinematografici, la crisi ha colpito duramente. È questo il punto di partenza di In grazia di Dio di Edoardo Winspeare che anche in questo suo ultimo film procede da un fenomeno attuale per immergersi nelle profondità più segrete di un tessuto sociale che si è formato in secoli di storia, quasi un’operazione archeologica che contiene lo stupore della scoperta (fin dal suo esordio Pizzicata).
Il matriarcato nel Salento è una realtà antica, come ci riportano le stesse cronache dei viaggiatori che rimarcavano essere solo scopo degli uomini locali (i cittadini) la vanità («quegli uomini impennacchiati…»). In mano alle donne era l’agricoltura protetta da leggi formulate fin dal quindicesimo secolo che aveva reso il Salento come un giardino, nettamente separata la città in mano alla borghesia (e questa cesura Winspeare la racconta benissimo in Galantuomini). Mentre una storia tutta di uomini l’aveva raccontata in Sangue vivo qui le quattro figure femminili del film (la devota, la «scattusa», la massara, la «vagnona») sono vere forze della natura e ancora di più testimoni viventi degli antichi popoli mediterranei della civiltà rurale, generazioni di donne che possiamo far risalire nel corso dei secoli, fino al modello mariano, più volte accennato nel film perché convive con la società salentina nelle preghiere, nelle chiese, nelle cappelline di campagna accanto alla pletora di santi locali e non, un tessuto inestricabile che convinse a suo tempo i gesuiti a inviare, con scarso successo, padri che svolgessero un lavoro di conversione verso quei pagani.
Anche se il miraggio della piccola azienda, nutrita dalle rimesse degli emigranti ha funzionato negli anni Ottanta ricoprendo il territorio di centinaia di piccole imprese – le camicerie, le industrie tessili, i calzaturifici – ora che le commesse sono state spostate in oriente, il film racconta il ritorno inevitabile a quello che resta, alla campagna. È nella casa rurale della madre che dopo l’inevitabile chiusura della piccola azienda tessile figlie e nipote trovano un rifugio da rimettere in funzione per quello che si può, mentre gli uomini riprendono la strada della Svizzera. Il ritorno alla campagna appare ad alcune di loro come un incubo, un ripiego economico a cui non si è più attrezzati, un ritmo a cui ci si deve piegare con la lentezza dei suoi tempi, la lontananza dalla città per la mancanza di mezzi di trasporto. Ma nel frattempo la vita continua con tutta la sua aggressiva urgenza e Winspeare riesce a orchestrare benissimo questo periodo di trasformazione dello stile di vita con guizzi di umorismo, con trasporto e compassione, con partecipazione, quello che fa di lui un autentico autore, non didascalico, caratterizzato da un trasporto etico senza moralismo e da istanze politiche senza proclami, in una ricerca costante di narrazione poetica.
Un racconto che non si può piegare ai canoni della «commedia italiana della crisi» con quattro star televisive, ma che maneggia un materiale sconosciuto e profondo. E con un gruppo di presenze eccezionali: nessun interprete del film è attore professionista: la protagonista Adele (Celeste Casciano) è la moglie del regista, la sorella Ina (Barbara De Matteis) che vuole fare l’attrice, nella vita lavora nel bar di famiglia, presenza solare che smorza la cupezza della sorella angosciata dai problemi ecnomici, grazie al suo sogno di recitare, del provino con Ozpetek. Poi c’è la figlia (la vera figlia di Celeste Casciano) divinità primaverile o giovane menade, e la madre (Anna Boccadamo, professione cuoca) che incarna in sé la fiducia ancestrale nella natura e nelle presenze spirituali.
«Il pubblico lo vede come un film straniero con sottotitoli» ci ha detto Winspeare quando gli abbiamo chiesto del fatto che è parlato nel dialetto dei paesi del Capo, dove ogni parola ha una sfumatura greca mediata dal latino (l’andamento giambico dei modi di dire, endecasillabico nelle frasi più complesse) o anche ecclesiastico come in quel «In grazia di Dio» del titolo, sospiro di sollievo dopo una giornata di fatica, da leggersi in parallelo a quel «Deo Gratias» pronunciato dalle nonne, con un misto di reverenza e ancor più sollievo dopo l’Ite missa est della lunga funzione domenicale, un’antica sapienza a cogliere il lato umoristico degli eventi.
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