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«Windward Passages», affresco corale afroamerican in una suite jazz

«Windward Passages», affresco corale afroamerican in una suite jazzDave Burrell – foto di Andrea Mazzoni

Musica L'opera di Dave Burrell scritta nel 1978 eseguita al Festival aperto

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 11 ottobre 2022
Nazim ComunaleREGGIO EMILIA

Windward Passages, un’opera jazz scritta dal pianista Dave Burrell nel 1978 e che non ha mai avuto una compiuta messa in scena teatrale. In oltre quarant’anni, queste composizioni del jazzman afroamericano hanno trovato altre forme, come il piano solo o realizzazioni per organici dal duo (con David Murray) al sestetto all’orchestra. Al Festival Aperto vivono nuova vita in una versione non definitiva (il progetto promette un seguito) per largo ensemble, la Windward Passages Orchestra, quattordici strumentisti con ampia prevalenza di fiati (sono dieci), voci, chitarra e sezione ritmica. Al pianoforte l’autore delle musiche basate su libretto della moglie, la poetessa svedese Monica Larsson. A dirigere Tobia Bondesan, anima del collettivo Bluering Improvisers con il fratello contrabbassista Michele e il batterista Giuseppe Sardina, entrambi nella band extralarge sul palco del Teatro Valli; composta per intero da italiani, con l’eccezione della sassofonista inglese Sigi Beare, comunque residente in Toscana.

L’OPERA racconta la vita di Abel e Sarah Washington e della loro famiglia, che emigra da Harlem alle Hawaii nel secondo dopoguerra. La storia, parzialmente autobiografica (Burrel è cresciuto proprio lì), si sviluppa in tre atti (ognuno suddiviso in quattro momenti) che culminano in una nuova partenza obbligata per la famiglia, dopo peripezie e tragedie. Un ampio affresco corale dove vicende personali e storiche si intrecciano, sostenute da un suono che attinge a più fonti, spaziando da languori ellingtoniani a frangenti improvvisati, con uno spettro dinamico molto ampio e un respiro generale che lascia sapientemente spazio sia alle voci individuali che al discorso collettivo, libero di prendere forma senza riempire tutti gli interstizi.

L’INCIPIT è una breve teoria di sbuffi subacquei e segnali morse che poi si coagulano in un suadente portamento sul quale fiorisce un solo al sax tenore di Filippo Orefice: la trama si sfrangia, si dilata, assume nuove, altre pronunce durante il percorso, pur mantentendo l’ intima coerenza di una lingua che indulge al dionisiaco e al languore, senza negarsi esplosioni anarchiche. Nel primo atto emerge Abel’s blissed out blues, un numero free-blues che mette in bella evidenza la voce di Emanuele Marsico, anche alla tromba, una delle cose migliori del concerto, già ascoltata negli Young Shouts di Silvia Bolognesi (grande contrabbassista da tempo nel giro di Art Ensemble Of Chicago) e davvero convincente nel suo essere naturale e coinvolgente senza mai indulgere nella retorica.

La famiglia Washington, che alle Hawaii aveva trovato il proprio paradiso, è costretta a ripartire verso l’ignoto. Come fa da sempre il jazz, inventandosi e reinventandosi.

Da lì si giunge a un dialogo improvvisato tra Burrell e il chitarrista Luca Perciballi, con la sei corde che sembra un vulcano e erutta lapilli avant. Anche al banjo, il musicista modenese è responsabile col suo Organic Gestures Trio di uno dei migliori album di musica creativa dell’anno scorso. Nel secondo atto colpisce il segno la festa di On a saturday night, con banjo e tuba a dare un sapore da old time blues che poi diventa qualcos’altro. A seguire, l’elegia di What is going on?: la lite tra due membri del gruppo di Clay, il figlio pianista di Abel e Sarah, sfocia in tragedia. Nel terzo ed ultimo atto è proprio il finale a suonare come la parte più trascinante, con l’intero organico che spinge a pieno regime.

LA FAMIGLIA WASHINGTON, che alle Hawaii aveva trovato il proprio paradiso, è costretta a ripartire verso l’ignoto. Come fa da sempre il jazz, inventandosi e reinventandosi. Al netto di qualche arrangiamento ritmico rivedibile, un lavoro lirico, profondo, capace di coniugare cantabilità e ricerca, narrazione e astrazione. Tutti bravi gli interpreti. Il cronista vuole spendere una nota supplementare per Orefice, già nel quintetto Tell No Lies, che sta per pubblicare l’esordio del suo Malaika Trio, e per Giulia Barba (sax baritono e clarinetto), che con Sonoro, uscito ad inizio anno, ci ha regalato un disco da non lasciar passare inosservato.

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