Della vita di Emily Dickinson ci aveva già parlato, in un’appassionata biografia non convenzionale, Terence Davies nel suo magnifico A Quiet Passion (2016). Della vita della poetessa americana (1830-1886), due anni dopo, si interessa, con sguardo altrettanto fuori da traiettorie pre-vedibili, anche la regista newyorkese Madeleine Olnek che, al terzo lungometraggio, realizza con Wild Nights with Emily Dickinson (in tour in diverse sale) un film che offre una versione inedita di quella donna dell’Ottocento che visse, fin dall’adolescenza, una per nulla «passione quieta» con l’amica (e poi cognata avendo sposato per convenienze sociali il fratello di lei Austin) Susan, una relazione bruciante e febbrile, fisica e epistolare, che durò fino alla sua morte.

NEL NARRARLA, facendone il cuore del film, Olnek spiazza ricorrendo a uno stile che contiene una varietà di toni, un procedere «frastagliato» che traccia linee diegetiche non lineari, che inserisce deviazioni di percorso usando espedienti formali (improvvise «sospensioni» della narrazione, fermi immagine, sguardi rivolti alla macchina da presa, split screen – per giungere a quello finale con lo schermo diviso in due che, da una parte, mostra Susan accanto al cadavere di Emily a letto e, dall’altra, Mabel, amante di Austin e che pubblicò postume le lettere di Emily, intenta a cancellare il nome di Susan dalla corrispondenza sostituendolo con nomi maschili per non «turbare» l’eventuale lettore medio), costruendo, in tal modo, un acuto senso di straniamento.

ESEMPLARE è una delle prime scene che vede Emily e Susan adulte in una stanza avvicinarsi, baciarsi sulle guance, poi lievemente sulla bocca fino a un bacio travolgente e a un abbraccio che le fa cadere a terra dietro a un divano. Il punto di vista è frontale, la musica classica e i gesti danno un tono di leggerezza, elemento che pervaderà tutto il testo chiamato con pertinenza da Olnek una «commedia drammatica con tocchi di humour».
Sta anche qui l’originalità di Wild Nights with Emily Dickinson, che arretra e avanza negli anni, avviandosi dopo la scomparsa di Emily per poi alternare, con passaggi fluidi, momenti della sua età adulta e della sua giovinezza (che riserva anche una scena «gemella» di quella del bacio sopra citato, con Emily e Susan ragazze che, rimaste sole, si seducono nelle stanze della casa con tenerezza, desiderio, e una passione che le inebria e travolge).
A contribuire alla leggerezza di tocco di Olnek ci sono le quattro attrici che interpretano le due protagoniste: Dana Melanie e Sasha Frolova (Emily e Susan da ragazze), Molly Shannon e Susan Ziegler (Emily e Susan da adulte). In particolare, Ziegler è perfetta nel dare espressione alle emozioni del suo personaggio.
Ma Olnek si spinge oltre nel condensare esperimenti filmici in un’opera che dura meno di un’ora e mezzo. Rilevanti quanto le immagini sono le parole, quelle pronunciate e quelle visualizzate, su tre livelli differenti, rendendole a loro volta un corpo visto. Ci sono le frasi scritte a mano di poesie e lettere sovrimpresse sulle immagini, che danno l’idea di galleggiare come se le inquadrature fossero una superficie acquatica; le lettere della corrispondenza inquadrate in primo piano; altre scritte poetiche collocate, questa volta, sullo schermo come se si trattasse di didascalie. Immagini e parole, e viceversa. E tra queste ultime, le due utilizzate nel titolo: «Notti selvagge. Notti selvagge. Fossi io con te, sarebbero notti selvagge, nostra voluttà. Via la bussola, via le carte. Remare nell’Eden. Ah, il mare. Potessi appena stanotte buttare l’ancora in te».