Wilamowitz, commento totale a cerchi concentrici
Wilamowitz e l'Eracle di Euripide L’edizione dell’«Eracle», pubblicata da Wilamowitz quando aveva quarant’anni, fu un libro anticonformista: per la scelta di Euripide contro lo schema di una grecità idealizzante; per la proposta di un’ermeneutica che comprendesse critica testuale, letteratura, archeologia, drammaturgia, storia delle religioni
Wilamowitz e l'Eracle di Euripide L’edizione dell’«Eracle», pubblicata da Wilamowitz quando aveva quarant’anni, fu un libro anticonformista: per la scelta di Euripide contro lo schema di una grecità idealizzante; per la proposta di un’ermeneutica che comprendesse critica testuale, letteratura, archeologia, drammaturgia, storia delle religioni
«Da nessun libro io ho appreso tanto di greco e sullo spirito greco (…) I filologi maggiori avevano sino a lui pubblicato testi, emendato passi guasti, tutt’al più interpretato luoghi difficili quasi sempre con l’intenzione di mostrare che essi erano sani; avevano quindi messo l’interpretazione al servizio della critica dei testi, mentre dev’essere il contrario. (…) A questo commento si addice particolarmente quella stessa parola che nel campo della scienza dell’antichità meglio contrassegna tutta l’opera del Wilamowitz: totalità». Queste parole di Giorgio Pasquali, che si leggono nel necrologio scritto a caldo dopo la scomparsa del suo maestro Ulrich von Wilamowitz-Moelledorff, testimoniano con tutto il loro rigore e la loro competenza il valore imprescindibile che l’edizione dell’Eracle euripideo di Wilamowitz ha assunto per generazioni di studiosi. Quell’edizione critica, uscita nel 1889 per l’editore Weidmann di Berlino e più volte ristampata, ha fatto da spartiacque nel modo di editare un testo antico.
Le accuse di Nietzsche
Nel momento in cui dava alle stampe l’Eracle, il quarantunenne Wilamowitz non era ancora il princeps philologorum che sarebbe divenuto, ma già si era affermato come studioso di vaglia internazionale. Da sei anni ricopriva la cattedra di filologia classica presso l’ateneo di Gottinga, dopo essere stato professore della medesima disciplina dal 1877 al 1883 a Greifswald, sulle rive del Baltico. Di lì a poco la sua parabola professionale sarebbe decollata con la chiamata all’università di Berlino. Aveva alle spalle una gran mole di lavori che spaziavano in svariati campi della ricerca filologico-letteraria, da Omero a Callimaco, dalla commedia a Tucidide. Ma l’interesse per la tragedia greca era stata la sua bussola e lo sarà anche in seguito, con una predilezione particolare per Euripide, al quale aveva dedicato tra l’altro la sua Habilitationsschrift, la dissertazione per ottenere la libera docenza, col titolo di Analecta Euripidea (1875). La propensione per Euripide, considerata la scarsa considerazione di cui godeva quel tragediografo nella cultura filologica e letteraria del secondo Ottocento, è sintomatica. Le accuse di realismo, di razionalismo, di aver trasformato gli eroi del passato in personaggi della vita quotidiana, erano diventati i topoi di un ripetuto e consolidato discredito di cui era vittima il poeta fin dai tempi di Aristofane e su cui avevano posto l’accento tra gli altri i fratelli Schlegel e da ultimo Nietzsche con l’accusa esplicita di avere «ucciso» la poesia tragica.
Un metodo capace di coniugare diversi àmbiti di studio
La decisione di dedicarsi con tanta assiduità allo studio dei drammi euripidei va intesa come un atto di anticonformismo, forse anche come un’implicita replica ulteriore a quel Nietzsche il cui libro sulla nascita della tragedia egli aveva duramente stroncato anni prima. Soprattutto era un modo per contrapporsi agli schemi del classicismo idealizzante della grecità, quegli schemi che ponevano Sofocle al vertice dell’arte tragica in quanto campione di armonia, misura ed equilibrio e che Wilamowitz osteggiò per tutta la vita giudicandoli un serio intralcio alla ricostruzione storica dell’antichità. Proprio perché avvertito come il meno «classico» dei tre grandi tragici ateniesi, quello meno propenso a veicolare messaggi di carattere eterno e universale, Euripide era la figura più idonea per l’impostazione di studio perseguita da Wilamowitz. E la passione per Euripide dagli Analecta in poi rimase un punto fermo, se solo si pensa alle successive edizioni dell’Eracle (1889), dell’Ippolito (’91) e dello Ione (1926), oltre ai fondamentali saggi sulla Medea, sugli Eraclidi, sull’Elettra e sul perduto Fetonte, tutti pubblicati nella rivista di studi classici «Hermes».
Ma torniamo all’edizione dell’Eracle per coglierne i tratti della sua portata innovativa. Si può dire, riprendendo le parole di Pasquali, che in quel libro si trova l’applicazione più riuscita di uno specifico metodo ermeneutico in cui si coniugano e si integrano diversi àmbiti di studio: la critica testuale in senso stretto e la storia propriamente letteraria, la mitologia e la storia delle religioni, l’attenzione per gli aspetti drammaturgici e la ricostruzione socio-politica, la metrica e l’archeologia. Qui Wilamowitz è riuscito nel modo migliore a dare concretezza a quell’ideale di «totalità», ovvero di conoscenza globale della civiltà greca antica, da conseguire col concorso di tutte le discipline necessarie, un ideale da lui sempre costantemente perseguito e teorizzato, la cui esplicitazione più nitida si legge nell’incipit della Storia della filologia (1921).
Parabola del genere tragico
La nuova prospettiva di studi che potremmo definire «totalizzante» e che mirava a recuperare il concetto di Altertumswissenschaft («scienza dell’antichità») nel contesto di una concezione nuova della filologia, tendente a superare gli eccessi e le insufficienze della pura critica testuale, porta Wilamowitz a sperimentare un innovativo modello di edizione commentata. Da principio il focus è certamente il testo dell’Eracle, definito criticamente mediante un’accurata ricognizione delle vicende testuali e il ricorso a emendazioni e congetture laddove necessario. Al testo critico con apparato si accompagnano la traduzione tedesca e un commento puntuale che rende comprensibile punto per punto non solo le particolarità linguistiche e metriche, ma anche le modalità in base alle quali il tragediografo Euripide ha rielaborato la leggenda tradizionale relativa alla figura di Eracle. Ma la prospettiva storico-filologica tende ad allargarsi sempre di più coinvolgendo altri aspetti più generali, il cui valore propedeutico e di approfondimento risulta ineludibile. Perciò lo studioso finisce col trattare in maniera sistematica le fonti antiche inerenti la biografia di Euripide, l’intera parabola storica del genere tragico dalle remote origini fino alla piena maturità nel V secolo a.C., le vicissitudini dei testi tragici dall’antichità all’epoca bizantina, con l’asserita necessità di andare oltre l’analisi dei manoscritti e delle varie filiazioni per arrivare a una ricostruzione completa della tradizione del testo a partire dalla prima stesura e attraverso i molteplici meccanismi di selezione; e perfino una riflessione teorica su «metodi e scopi» della moderna critica filologica applicata ai testi tragici. Il mito di Eracle diviene infine oggetto di un dettagliato excursus storico-mitologico articolato in due parti distinte: l’Eracle personaggio della leggenda eroica e la ristrutturazione del personaggio operata da Euripide.
Più che per la qualità delle lezioni adottate nell’edizione critica e più che per la ricchezza e la precisione dell’apparato critico, l’edizione dell’Eracle ha fatto scuola per la sua innovativa impostazione metodologica che sottrae la redazione di edizioni critiche all’ambito esclusivo della cosiddetta «filologia formale», quella sostenuta da Johann Gottfried Hermann e dalla sua scuola. Si può dire che quell’edizione, che ampia il commento a dismisura trattando le questioni più svariate, espandendosi a cerchi concentrici fino a comprendere l’intera storia dei testi tragici dalla loro performance a oggi, e lunghe digressioni introduttive sulla storia della tragedia greca e sul mito di Eracle, propizia una mirabile sintesi tra l’indirizzo ‘formale’, cui si è fatto cenno, e ‘quello storico’ (August Boeckh), sanando una frattura che si era prodotta nel primo Ottocento. L’ideale di totalità si traduce qui in una prassi ermeneutica per cui il filologo, nel momento in cui è chiamato a interpretare e commentare un testo antico, è tenuto a far interagire la documentazione più disparata facendo riferimento alle fonti letterarie e a quelle epigrafiche, alla tradizione mitografica e all’antica erudizione, alle acquisizioni dell’archeologia e della papirologia, alla religione antica e alla teoria metrica. E quanto più la sua capacità di dominare quella massa documentaria è accorta e sicura, tanto più riuscirà a conseguire lo scopo di «afferrare l’intero», per dirla con lo stesso Wilamowitz, ovvero inquadrare lo specifico testo nelle coordinate storiche della civiltà che lo ha prodotto.
*Gherardo Ugolini insegna Filologia classica all’Università di Verona. Ha pubblicato Sofocle e Atene, Carocci 2000; Guida alla lettura della “Nascita della tragedia” di Nietzsche, Laterza 2007; Storia della filologia classica, Carocci 2016 (trad. ing. De Gruyter ’22). Di recente è uscito il volume Tra Edipo e Antigone. Il mito tebano sulla scena attica e moderna (Pistoia 2024).
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