Oggi quella fototessera di Werner Bischof (Zurigo 1916 – Trujillo, Peru 1954), sul passaporto rilasciato nel 1945, non sarebbe valida. Le regole sono molto più rigide: le foto devono essere a fuoco e nitide, lo sguardo della persona ritratta diretto verso l’obiettivo, avere un fondo neutro e un livello ottimale di luminosità e contrasto. Lui, invece, guarda in alto, il volto leggermente ruotato di lato, i capelli scompigliati, l’esuberanza della giovinezza e, tra le righe, il desiderio di sfidare la prevedibilità. Non è un caso che avesse scelto la professione di fotografo, come è indicato sul documento.

Di Bischof, tra i più famosi fotoreporter del XX secolo, membro dell’agenzia Magnum dal 1949 (il primo estraneo ad essere ammesso al gruppo dei fondatori), è stato visto, scritto e detto molto. Anche in considerazione delle sue tragiche vicende biografiche con la scomparsa all’età di 38 anni, il 16 maggio 1954, in un’incidente stradale sulle Ande Peruviane. Esattamente nove giorni prima che Robert Capa perdesse la vita calpestando una mina a Thai Binh in Vietnam. Acuto osservatore della realtà, sempre con uno sguardo di autentica «humanitas» – sono particolarmente intense le sue immagini del dopoguerra di un’Europa in ginocchio, da Varsavia a Berlino, dalla Grecia all’Italia – Bischof ha affidato il suo pensiero e la sua poetica ad uno straordinario «archivio familiare» con sede a Zurigo che conta migliaia e migliaia di negativi, stampe vintage, lettere, diari, documenti e pubblicazioni.

Da qui proviene anche il nucleo inedito di un centinaio di immagini a colori, stampate digitalmente dalla scansione delle lastre originali di vetro della mostra Werner Bischof. Unseen Colour, curata da Ludovica Introini e Francesca Bernasconi con Marco Bischof e prodotta dal Masi – Museo d’arte della Svizzera italiana di Lugano (dove è esposta fino al 2 luglio) in collaborazione con Fotostiftung Schweiz di Winterthur che ospiterà l’esposizione dal 26 agosto al 21 gennaio 2024 (il catalogo è pubblicato dalle Edizioni Casagrande).

Un lungo e complesso progetto che ha visto il coinvolgimento di diverse figure professionali, tra cui quella del fotografo ed esperto di tecnica fotografica Rolf Veraguth che si è occupato del restauro e scansione dei negativi, mentre Ursula Heidelberger del Laboratorium di Zurigo con il suo team ha curato l’interpretazione cromatica delle immagini e la loro stampa a getto d’inchiostro. Tutto nasce dal ritrovamento, nel 2016, da parte del figlio del fotografo Marco Bischof, attuale responsabile dell’archivio (prima di lui a promuoverlo è stata sua madre Rosellina Mandel, cofondatrice della Fotostiftung Schweiz, la Fondazione svizzera per la fotografia e successivamente moglie di René Burri, un altro grande maestro della fotografia), di diverse scatole risalenti agli anni ’39-’40 e ’50 contenenti negativi su lastre di vetro che, malgrado la fragilità del supporto, avevano una maggiore stabilità rispetto alla pellicola di celluloide. I negativi ritrovati hanno formati diversi, in base all’apparecchio fotografico utilizzato: Devin Tri-Color, Rolleiflex e Leica. I tre esemplari esposti provengono dal Musée suisse de l’appareil photographique di Vevey.

Ciò che ha incuriosito Marco Bischof è stato, in particolare, la presenza di una serie di negativi il cui soggetto si ripeteva su tre lastre apparentemente identiche tra loro. Si tratta, in realtà, dei negativi della Devin Tri-color, una costosa fotocamera popolare negli anni ’30, in cui le tre lastre monocromatiche, montate ognuna dietro un filtro colorato (rosso, verde e blu) venivano impresse con un solo scatto. Dalle informazioni registrate dai tre negativi si sviluppava, quindi, il processo di stampa a colori.

Werner Bischof, con la sua inclinazione artistica frutto di una formazione in cui c’era il riflesso delle sperimentazioni del Bauhaus – aveva frequentato la Scuola di Arti Applicate di Zurigo ed il nuovo corso di fotografia tenuto dal fotografo industriale Hans Finsler – iniziò la sua attività di fotografo collaborando con la prestigiosa rivista svizzera Du, fondata nel 1941 dagli editori Conzett & Huber e proprio con la Devin Tri-Color scattò molte foto pubblicate spesso in copertina. In una teca, al MASI, sono esposti alcuni numeri della rivista con le pagine aperte sulle bellissime immagini del Kathakali o sui fiori di loto.

Certamente il bianco e nero non avrebbe potuto rendere la vivacità del verde lime del trucco sul volto del danzatore-attore del Kerala, né quel verde acido della foglia di loto nella foto scattata in Giappone nel 1951. Negli appunti, al lato delle riviste, vediamo l’elaborazione del processo creativo dell’autore: lo schizzo, infatti, nella sua rapidità accompagna parallelamente le parole (si legge anche «farbig» che in tedesco significa colorato) e lo scatto fotografico. Un’attenzione analoga nella costruzione «naturale» dell’immagine è evidente anche in un’altra foto di quel viaggio nel Sol Levante, in cui il soggetto è l’ombrellino giallo di carta oleata in un vicolo infangato di Kyoto. Il suo formato quadrato indica che è stata scattata con la Rolleiflex.

Bischof era dichiaratamente affascinato dal Giappone e dalla sua cultura, tanto che tra i suoi primi libri fotografici figura proprio Japan (pubblicato in Francia nel ’54 da Robert Delpire e in Italia, con il titolo Giappone, da Garzanti). Nelle fotografie a colori della mostra Unseen Colour si conferma, comunque, l’attitudine ad una ricerca estetica che per il fotografo svizzero, al di là del linguaggio espressivo del bianco e nero o del colore, non è mai svincolata dall’esigenza di documentare sollecitando una riflessione sociale. È così nel ritratto scattato nel ’46 con la Devin Tri-Color Camera al ragazzo di nome Jo Corbey, vittima di trappola esplosiva a Roermond nei Paesi Bassi, come pure nell’immagine del 1954 della bambola seduta sulla seggiolina di paglia intrecciata, inquadrata dall’alto con la Leica, sul parquet di legno consumato della casa di Frida Kahlo a Coyoacán, Città del Messico.