L’imponente e cupa immagine della dimora di Xanadu, con le sue guglie, le sue gondole abbandonate nei canali e le piccole scimmie che occhieggiano dalle cancellate, occupa i primi minuti del capolavoro di Orson Welles, Quarto potere (1941). Più avanti, la voce dello speaker di un cinegiornale ci ragguaglia sulla sua costruzione babelica («Dopo le piramidi, è il monumento più costoso che un uomo abbia costruito per sé stesso»), riflesso del titanismo del proprietario – il magnate protagonista del film, Charles Foster Kane –, ricordandoci che non è mai stata completata. Il critico Peter Biskind, nell’introduzione all’appassionante raccolta di conversazioni tra Welles e il discepolo/adoratore Henry Jaglom (A pranzo con Orson, Adelphi 2015), ha scritto che l’immagine di Xanadu profetizza in modo emblematico l’ultimo tratto della carriera del regista americano, pieno di progetti avviati e mai portati a compimento, per troppa ambizione, smania di accentramento e, non di meno, in un circolo vizioso, per la cattiva fama che proprio la sua incostanza gli aveva appiccicato addosso nell’ambiente hollywoodiano.

A una delle ultime fallimentari imprese di Welles, il film The Other Side of the Wind, è dedicato il volume Orson Welles e la New Hollywood (Mimesis, pp. 192, € 18,00, prefazione di Esteve Riambau) di Massimiliano Studer, docente di linguaggio del cinema all’Istituto Albe Steiner di Milano ed esperto conoscitore del cineasta di Kenosha a cui, nel 2018, aveva già dedicato la monografia Alle origini di «Quarto potere» (apparsa sempre da Mimesis). A rendere notevole di attenzione il caso di questa pellicola non è però soltanto la sua travagliatissima storia produttiva, che condivide con altri progetti compiuti e incompiuti di Welles, quanto il fatto che nel 2018 Netflix abbia preso l’iniziativa di finanziare e distribuire una versione del film realizzata sulla base dei materiali che il regista aveva girato in maniera discontinua a partire dal 1970. Al festival di Venezia, dove è stato accolto fuori concorso, Netflix ha tenuto a presentare il final cut di The Other Side of the Wind (realizzato dal montatore premio Oscar Bob Murawski) come il sedicesimo tassello della filmografia ufficiale di Welles regista. Ma si può davvero intendere il risultato dell’operazione come la genuina restituzione di un capolavoro nascosto? Il film targato Netflix rispecchia realmente la volontà e la visione del suo autore?

È a queste domande che Studer si propone di rispondere, soprattutto nel terzo capitolo dedicato, appunto, ai «problemi filologici della versione Netflix». Ma prima di addentrarsi nell’intricato labirinto di fonti, testimonianze, sceneggiature a diversi stadi di revisione e versioni parziali utili a mettere alla prova il lavoro di Murawski e del team supportato dal colosso dello streaming, Studer ci guida nella non meno ingarbugliata vicenda creativa e produttiva del film. E se la sezione «filologica» rispecchia in maniera più evidente l’origine accademica del volume (frutto delle ricerche intraprese dall’autore durante un dottorato svolto presso l’Università di Udine), i due capitoli dedicati alla concezione, alle riprese avventurose e alle querelle finanziarie e legali connesse con il materiale girato sono di certo i più godibili per il lettore curioso di inseguire la fase discendente della parabola di Welles, più che mai somigliante al suo alter ego Falstaff, tra intemperanze, sprezzature, lampi di genio e malinconia.

A colpire, in quei capitoli, sono il suo fascino per la figura di Ernest Hemingway e le circostanze del loro primo incontro nel 1937, nel milieu intellettuale newyorchese in fermento per la Guerra di Spagna. È proprio pensando a Hemingway che molti anni dopo, a ridosso del suicidio del Premio Nobel, il cineasta plasmerà il protagonista di The Other Side of the Wind, il quale in un primo momento – aderendo ancora di più al modello originale – doveva essere un regista ossessionato dal suo machismo («una persona che difficilmente riesci a vedere attraverso il cespuglio di peli sul suo petto», così lo descrive Welles) caduto vittima dell’infatuazione per un giovane torero. A quel tempo, il progetto portava il nome The Sacred Monsters e doveva ambientarsi in Spagna, appunto nel mondo delle corride: uno scenario che, com’è noto, aveva potentemente affascinato Hemingway (tanto da spingerlo a scrivere nel 1932 il saggio Morte nel pomeriggio) e che ora, in virtù del suo amore per il paese iberico, Welles sognava di mettere in scena nel proprio film.

A impedire la realizzazione del progetto si intromise l’uscita de Il momento della verità (1965) di Francesco Rosi, film dai tratti fortemente documentaristici incentrato sulla carriera di un torero, dalle umili origini contadine, alla gloria, alla fine tragica nell’arena. Il fallimento commerciale di quest’opera costrinse Welles a mettere in stand-by il progetto, ma almeno due elementi si sarebbero conservati negli anni, quando si decise a rimettervi mano: il protagonista hemingwayano e l’idea di un incontro/scontro tra generazioni. Questa volta, però, il contesto non era più la Spagna e la tauromachia, ma lo stesso universo hollywoodiano, che nel frattempo stava vivendo uno dei suoi momenti di maggiore effervescenza: sull’onda delle innovazioni del cinema europeo (degli autori della Nouvelle vague, di Antonioni, o anche di successi a basso budget come la commedia inglese Alfie), e grazie inoltre all’allentamento dei parametri di censura del codice Hays, una nuova ondata di giovani cineasti imponeva le proprie opere trasgressive tra il pubblico e la critica, dando l’assalto al mondo delle major prima dall’esterno, e poi, in alcuni casi, insinuandovisi fino a scalarne i vertici.

Si trattava di una generazione convinta che l’autore (il regista) sia il vero Dio del film, e questo non poteva che incontrare il favore di Welles, il quale nel corso della carriera più volte si era dovuto battere con le produzioni per intestarsi le scelte creative dei film (uscendo spesso da quegli scontri con le ossa rotte). D’altro canto, le sue lotte, così come il suo genio, avevano reso Welles un idolo della nuova generazione. La corrispondenza amorosa sembrava naturale, ma se pure Welles entrò in contatto con giovani produttori come il Bert Schneider di Easy Rider, con registi/attori come Dennis Hopper, o si avvalse della collaborazione di talenti come Peter Bogdanovich, allo stesso tempo fiutò che quegli incendiari – per dirla con le parole di una canzone di Rino Gaetano – erano già pronti a trasformarsi in pompieri, ovvero a rafforzare la validità del sistema rispetto a cui inizialmente si ponevano come eccentrici.

Così The Other Side of the Wind si trasformò in una satira corrosiva della New Hollywood, in cui non mancavano caricature di alcune delle sue figure di spicco, come il golden boy della Paramount, il produttore Robert Evans (Love Story, Il padrino, Chinatown ecc.). Una satira, peraltro, condotta con lo stesso linguaggio filmico delle nuove leve: il montaggio frenetico e destrutturato, il citazionismo, l’alternanza di bianco/nero e colore, la centralità delle tematiche sessuali. Welles inaugurò e portò avanti l’impresa donchisciottescamente, affidandosi, per quanto poté, solo alle sue risorse e a un ristretto gruppo di collaboratori (tra cui l’ultima compagna e musa Oja Kodar), ma fu costretto in seguito a cercare appoggi economici prima in un produttore spagnolo, Andrés Vicente Goméz, e poi in un omologo iraniano, il cognato dello scià Mehdi Bousheri. Con entrambi, però, i rapporti si guastarono fino a ridursi a contenziosi legali: ciò non faceva che rendere evidente, una volta di più, la difficoltà di Welles di accettare influenze esterne e, più drammaticamente, un’inaffidabilità ormai cronica nel rispettare tempi di lavoro e vincoli di budget.
Ma se proprio il controllo totale della macchina realizzativa di un film era stato la croce e la delizia della carriera di Welles, in che modo dovrebbe rapportarsi lo spettatore a un film come The Other Side of the Wind, che è stato completato senza il definitivo avallo del suo creatore?

La risposta di Studer è che – a differenza di quanto annunciato da Netflix – la versione rilasciata non sia davvero un’opera di Welles. «Non ci sono opere, ma solo autori» recita il motto della politique des auteurs nelle parole di François Truffaut. E se ammettiamo che un film assume la sua vera peculiarità solo nella prospettiva della poetica del suo creatore, in questa operazione sembra che troppo della visione wellesiana sia stato sacrificato con l’obiettivo della fruibilità dell’opera: Studer indica con rigore queste trasgressioni basandosi su memo di lavoro, interviste, versioni dello script e, soprattutto, su una working print parziale del film di cui Welles stesso supervisionò il montaggio.

Ma il regista, in fondo, era anche il Proteo che, bacchettando le velleità autoriali del suo amico Jaglom, per l’appunto un esponente della New Hollywood, diceva: «Il contenuto deve essere più importante della bravura del regista». Che Netflix e Murawski, tradendo Welles e restituendo dopo 48 anni una versione del suo film segreto, non gli siano stati inconsciamente più fedeli?