Nel 2007 usciva Hollow Land di Eyal Weizman, tradotto un paio di anni dopo in Italia da Bruno Mondadori con il titolo di Architettura dell’occupazione e oggi riproposto negli «Oscar storia», con un titolo diverso, Spaziocidio. Israele e l’architettura come strumento di controllo (Mondadori, pp. 348, euro 14). Il libro affrontava il tema dell’occupazione israeliana della Palestina attraverso un approccio innovativo, incentrato sull’analisi puntuale dell’uso, da parte israeliana, di una serie di saperi e tecniche, dall’archeologia all’architettura, dall’ingegneria idraulica all’urbanistica per aggredire strategicamente uno spazio inteso in senso non solo quantitativo ma anche qualitativo.

AL CONTEMPO, si cercava di evidenziare come quegli stessi saperi, e altri ancora, fossero utilizzati dalla parte palestinese nelle sue tattiche di resistenza nelle trame di lisciatura e striatura di un territorio divenuto sia posta in gioco sia strumento del conflitto. Il testo è divenuto in breve non solo un classico della cosiddetta spatial turn nelle scienze sociali ma anche un punto di riferimento fondamentale nell’analisi della cifra territoriale dei conflitti, delle strategie di governo e delle guerre del presente.

Eyal Weizman, tuttavia, non è solo un teorico. Il suo lavoro di elaborazione critica, infatti, si interseca a una dimensione militante e pratica, attraverso una straordinaria capacità di aggregare competenze eterogenee all’interno di progetti collettivi innovativi e animati dalla volontà di incidere politicamente su diversi livelli, dalle istanze giuridiche sovranazionali e nazionali al supporto alle mobilitazione di base. Rientra in tale prospettiva, per esempio, Decolonizing Architecture, fondato insieme ad Alessandro Petti e Sandi Hilal, incentrato sulla progettazione/anticipazione di un futuro decoloniale della Palestina, e poi estesosi alla problematizzazione di altre altre aree (www.decolonizing.ps).

UN ULTERIORE FRONTE è costituto dal collettivo Forensic Architecture (forensic-architecture.org), nato nel 2010 mettendo in rete le competenze di architetti, giuristi, ingegneri, informatici, anatomopatologi ed esperti delle più svariate branche scientifiche allo scopo di raccogliere e analizzare elementi probatori di natura architettonica su crimini di guerra, violenze di stato o perpetrate da aziende e soggetti privati. L’obiettivo è quello di fornire controinchieste, in grado di contrastare, sul piano del rigore analitico e del ricorso a nuovi metodi di indagine e di presentazione dei dati, le versioni ufficiali sostenute da attori, dalle forze militari alle multinazionali, in grado di avvalersi di risorse soverchianti e di un accesso privilegiato a media e tribunali.

DI QUEST’ULTIMA esperienza rende conto Architettura forense. La manipolazione delle immagini nelle guerre contemporanee (Meltemi, pp. 448, euro 25), in cui Weizman, come in una sorta di diario di bordo, documenta la più che decennale attività di Forensic Architecure.
Nel volume riflessioni teoriche sull’estetica materiale si alternano a istruzioni sulle metodologie utilizzate e ad analisi politiche sul contributo che l’architettura forense può fornire all’accertamento di fatti, crimini, violazioni su cui i poteri di stato appaiono restii a fare luce. Ampio spazio è poi fornito alla presentazione di specifiche indagini condotte dall’«agenzia», partendo dalle considerazioni circa le tecniche utilizzate per proseguire con l’illustrazione delle modalità con cui tali perizie sono stati fatte valere, con esiti ovviamente alterni, in contesti giuridico-istituzionali come all’interno di campagne di sensibilizzazione e di mobilitazioni dal basso.

UN RUOLO CENTRALE, ovviamente, è riservato alle vicende di Israele/Palestina, con le inchieste sulle uccisioni di manifestanti da parte dell’Idf , sul percorso per la denuncia di Israele per crimini di guerra in riferimento all’attacco a a Gaza del 2014 o sugli espropri ai danni dei beduini del Negev. L’attività di Forensic Architecture, tuttavia, si è estesa anche ad altri contesti, dagli assassini mirati tramite droni, e ai loro effetti collaterali, fra Afghanistan e Pakistan, ai crimini della giunta militare guatemalteca fino alle vicende della guerra di Siria.
Un involontario tempismo caratterizza l’uscita in Italia di questo libro, che ci capita fra le mani nelle settimane in cui si discute del massacro di Bucha, si confrontano immagini satellitari e i media sono inondati di video sulla guerra in Ucraina sul cui statuto di realtà spesso ci si pronuncia solo in base ai propri bias cognitivi.

SE IN PASSATO gli scenari di guerra si caratterizzavano per una quasi assoluta opacità, oggi si deve fare i conti con un’opacità differente, relativa all’eccesso di immagini e narrazioni, provenienti da una pluralità di fonti, che circolano nel tempo reale del web. In tal senso, nei casi illustrati dal volume si evidenzia la possibilità di fare superare a foto, filmati e narrazioni uno statuto indeterminato attraverso la loro raccolta sistematica, la loro messa in relazione, il loro incrocio con testimonianze di altro genere, l’individuazione di «orologi materiali», dalle ombre alle nubi create dalle esplosioni, capaci di metterle in sequenza. Ciò conduce all’elaborazione di plastici, materiali e virtuali, che permettono di collocare spazialmente e temporalmente le fonti disponibili, attribuendo loro un valore probatorio.

La prospettiva, tuttavia, non è ingenuamente legalista. Il richiamo alle istanze giurisdizionali internazionali e nazionali non è vista come la via maestra verso la giustizia quanto come un terreno di lotta che non ci si può permettere di abbandonare, ma che deve essere agito in sinergia con altri livelli di mobilitazione. A tal proposito, è interessanti osservare come negli ambienti militari e della pubblica sicurezza si parli con preoccupazione da un po’ di tempo di lawfare, di guerra legale, come uno dei terreni di articolazione del conflitto nella contemporaneità. Non a caso, come indicato da Weizman, la leadership israeliana vede nell’attivismo legale una della maggiore sfide con cui si deve confrontare, tanto che un documento del ministero degli Esteri, parafrasando per l’ennesima volta l’adagio di Clausewitz, giunge ad affermare che «il lawfare è la continuazione del terrorismo con altri mezzi».