Forse è ancora troppo presto per comprendere e valutare la grandezza artistica di Wayne Shorter che resta tra i maggiori solisti, compositori, bandleader, in rapporto soprattutto a una continuità artistico-lavorativa che – impressa fra il 1958 e il 2018 – comprende pochi uguali nell’ambito delle sonorità contemporanee, al di là di etichette o inquadramenti. Nato a Newark, New Jersey, il 25 agosto 1933 e morto a Los Angeles il 2 marzo scorso, a differenza di quasi tutti i suoi colleghi, il timido riservato afroamericano non inizia giovanissimo la professione: solo dopo gli studi regolari e il servizio militare, grazie all’amicizia con Horace Silver, debutta quasi in contemporanea sia con un disco solista (Introducing Wayne Shorter, Vee Jay, 1959) sia nel 46º album del prolifico Art Blakey (The Big Beat, Blue Note, 1960) uno dei tre musicisti, con il quale condividerà, da partner speciale, il primo quarto di secolo della propria ricerca inventiva.
Infatti nei Jazz Messengers, formazione che il batterista dirige ininterrottamente tra il 1953 e il 1990, Wayne al sax tenore è direttore artistico dal 1959 al 1964, fino al momento dell’abbandono, dopo quattordici album strepitosi, per entrare a far parte di quello che, a posteriori verrà chiamato il Golden Quintet, summa espressiva dei Sixties di Miles Davis; quest’ultimo è in crisi per la dipartita di John Coltrane, con il quale vara il modal jazz e realizza il capolavoro Kind of Blue; per rimpiazzarlo, il trombettista prova ben tre tenor sax – Hank Mobley, George Coleman, Sam Rivers – prima di trovare in Wayne la spalla ideale, nonché l’alter ego e la front line perfetta con una sezione ritmica composta niente meno che da Herbie Hancock, Ron Carter, Tony Williams, all’epoca giovanissimi. I sei anni trascorsi con Davis (e sette studio album ufficiali) vedono la completa maturazione dello Shorter compositore e tenorista (e poi anche al sax soprano) in grado di assecondare l’esigenza del gruppo e del leader nell’aprirsi alle sonorità giovanili, che sfoceranno nell’epocale Bitches Brew (1970), ritenuto il manifesto programmatico del nascente jazz rock.

IDEA FUSION
Dall’incontro con altri nuovi davisiani, in particolare l’austriaco Joe Zawinul alle tastiere, nasce il quintetto Weather Report, avente di fatto una co-leadership Shorter/Zawinul, attorno ai quali ruotano sempre freschi ricambi tra basso e batteria: due nomi su tutti Jaco Pastorius e Peter Erskine; l’esperienza quindicinale dei WR coincide con ciò che verrà comunemente battezzato fusion; ma la rottura fra i due capitani nasce proprio sull’idea di fusione da perseguire, che per Joe significa addirittura maggiore insistenza su richiami ethno e su influenze world music, mentre per Wayne vorrebbe dire lavorare attorno a possibili inediti sviluppi del jazz elettrico. Inevitabilmente le strade si biforcano e se, per Zawinul, con la nuova band Syndicate il sound viene sempre più elettronicamente orientato verso i mescolamenti tra culture africane, latine, orientali, per Shorter c’è un progressivo ritorno al jazz-jazz, con una ripresa dell’hard bop e del modale acustico (anticipato pure dai due live album del supergruppo V.S.O.P. con Hubbard, Hancock, Carter, Williams). Nei successivi trent’anni di carriera finalmente solistica, con la modestia che lo contraddistingue sin dal debutto, diventa presto un referente essenziale per il pubblico e soprattutto per i sassofonisti che vedono in lui un diretto continuatore o il saxman che meglio sviluppa la lezione coltraniana sotto il profilo dell’originalità.
Sotto questa luce, a vantaggio di Wayne, rispetto ad altri colleghi di ascendenza bebop o free, c’è una parallela carriera solista negli anni Sessanta – mediaticamente soffocata dall’attività ingombrante con Blakey e soprattutto Davis e riscoperta solo dopo i WR – ricollegabile stilisticamente alla produzione discografica recente. Infatti vi sono in contemporanea ai Messengers i tre album Vee Jay – oltre il primo citato, Second Genesis e Wayning Moments – e negli anni di Miles gli undici straordinari Blue Note, di cui la metà capolavori quali JuJu, Speak No Evil, Adam’s Apple, Super Nova, Moto Grosso Feio; quando invece è con Zawinul, Shorter contrattualmente legato con il gruppo alla Columbia, incide un solo album (Native Dancer, 1975) e poi altri tre, appena conclusa l’esperienza con la band: Phantom Navigator, 1986, il migliore. Ma, dopo un lungo silenzio settennale, è con i cinque dischi per Verve – indispendabili Footprints Live! e Alegría, oltre il duetto 1+1 con Herbie Hancock – e poi con gli ultimi due per Blue Note – Without a Net ed Emanon quasi un ritorno a casa e al contempo un testamento spirituale- che il sassofonista dà il meglio di sé.

INFLUENZE
Questa tortuosa carriera discografica dimostra che in fondo, per lui come per altri saxmen educatisi alla scuola coltraniana – benché egli, in varie interviste, citi spesso Coleman Hawkins e Lester Young tra le influenze principali – deve trascorrere parecchio tempo per vedere riconosciuto il proprio talento di solista e di compositore. Certo, l’influenza di Trane soprattutto al tenore si palesa ad esempio, lungo i Sixties, nel nitore dell’attacco delle note, tra lunghe frasi, netti contrasti, ricorsi parossistici. Infatti la vicinanza di Miles, specie alla fine di quel decennio, accelera in Wayne un ulteriore processo evolutivo (ripreso anche al soprano) che consta di note tronche, di punteggiature in falsetto, di sonorità roche appena marcate e al contempo di lirismi quasi morbidi o romantici. L’uso alternato sempre più frequente dei due sax (e del lyricon, strumento computerizzato più acuto del soprano) va di pari passo alle idee di come organizzare il suono, fino a inserirlo «sulla via d’una creazione plurivocale in cui l’accompagnamento e l’assolo, senza smettere la loro interdipendenza, sembrano tuttavia diventare autonomi».
Il discorso di Shorter strumentista si fa conciso con i WR, mentre il lirismo – solo a tratti nostalgico ma per nulla rétro – riemerge dagli anni Novanta sino al ritiro di quattro anni fa, innervando costantemente una musica che, oltre alcuni brevi collaborazioni pop (Milton Nascimento, Carlos Santana, Joni Mitchell, Pino Daniele, Steely Dan) trova forse l’esemplificazione migliore con il Quartet del 2013 assieme a Danilo Perez (pianoforte), John Patitucci (contrabbasso), Brian Blade (batteria). Ma ancora, tra le uscite finali, la jam immortalata nel disco Live at the Detroit Jazz Festival (Candid) a nome dei quattro celebri protagonisti, Terri Lyne Carrington, Leo Genovese, Esperanza Spalding, rivela una versatilità situazionista che, indirettamente, rende omaggio sia a lui stesso sia alla capacità del jazz medesimo di autorigenerarsi.
Tanti infine sono gli improvvisatori che dicono di ispirarsi a Wayne Shorter, il cui impriting risulta chiaro e palese negli attuali sassofonisti, più o meno giovani, come Andrew Hadro, Don Braden, Shabaka Hutchings, Glenn White, Karlton E. Hester, Michel Hodson-Casanova, Peter Fraize, Michael W. Gilbert, Sinan Sparg-Henssen. Di recente, poi, in Italia, c’è chi fa di Shorter persino il pretesto per un racconto didascalico: ne Il favoloso mondo di Wayne lo strambo (così come viene chiamato il protagonista alle elementari) un altro saxman, Roberto Bottalico con Alter & Go Project, propone un libro e uno spettacolo e la colonna sonora di un esperimento ovviamente basato sull’estro individuale e sui principi compositivi di Shorter, ripensato in una sorta di fiaba illustrata con un fitto gioco di rimandi e immedesimazioni.