Aby Warburg aveva una speciale predilezione per il romanzo di Thomas Carlyle pubblicato nel 1836, Sartor Resartus. Di questo testo ibrido, ironico e meta-letterario, Warburg doveva apprezzare soprattutto l’idea di ricostruire il pensiero e la filosofia del protagonista, Diogenes Teufelsdröckh, attraverso la messe sparsa del lascito dei suoi molti materiali. Immediatamente, per chi conosca anche solo a grandi linee le vicende della vita e dell’opera del grande studioso di Amburgo, risulterà calzante il paragone. Come l’editore – la voce narrante nella finzione di Carlyle – tenta di far ordine nel guazzabuglio di carte lasciato da Teufelsdröckh per trovare il modo di pubblicare la sua opera maggiore, allo stesso modo Warburg si trova immerso nel tentativo di dar voce a un passato che gli giunge solo tramite frammenti, pezzi sparsi che vanno, uno per uno, ‘rattoppati’, ricuciti assieme (resarti, per l’appunto), e attraverso quest’operazione giungere a un ‘risarcimento’ (altro senso ricompreso nel latino (re)sarcio, da cui l’aggettivo nel titolo di Carlyle deriva). Ma l’identificazione è duplice. Perché Warburg non solo si sovrappone all’editore a caccia dell’opus magnum dello scomparso filosofo, ma diviene anche alter-ego di Teufelsdröckh stesso, come testimonia una dedica, rimasta allo stato di appunto e mai pubblicata, che egli aveva intenzione di apporre su uno dei propri saggi nel 1902: «A Thomas Carlyle. Un’offerta sacrificale, da Teufelsdröckh il giovane».

Quella dell’incompiutezza è una caratteristica del lavoro di Warburg che, del resto, egli stesso aveva ben presente e dalla quale era in una certa misura assediato. Molti dei suoi scritti sono rimasti allo stato manoscritto, quando non solamente abbozzati. È stato solo attraverso un lento processo di rilettura e riscoperta che, soprattutto a partire dagli anni ottanta, si è avviata la ‘rinascita’ di questo gigante della cultura europea. In Italia, a dire il vero, l’astro di Warburg non ha mai del tutto smesso di brillare, anche se, certo, molto spesso è stato frainteso o appiattito sul più fortunato metodo iconologico di Erwin Panofsky; ma, in generale, quello italiano è stato forse un contesto più ricettivo di altri – e basterà scorrere il recente volume curato da Monica Centanni e pubblicato da Ronzani editore, Warburg e il pensiero vivente, per averne una sorta di mappa.

Dopo il profluvio di saggi, libri ed edizioni, ciò che mancava nel panorama (apparentemente) così rigoglioso di studi su Warburg era una biografia. Punto di riferimento, sinora, è stata l’ormai storica biografia che allo studioso di Amburgo dedicò Sir Ernst Gombrich. Uscito in inglese nel 1970, tradotto in italiano da Alessandro Dal Lago e Pier Aldo Rovatti nel 1983 per Feltrinelli, quello di Gombrich è un libro che fu subito messo sotto accusa, anche dai più stretti collaboratori del Warburg Institute. Famosa la stroncatura che Edgar Wind pubblicò il 25 giugno 1971 sul «Times Literary Supplement»: dai toni assai duri, puntava il dito su alcuni innegabili problemi posti dall’impresa di Gombrich. Se a quell’altezza cronologica Wind poteva affermare che Warburg era di fatto sconosciuto in Inghilterra, e dunque Gombrich avrebbe dovuto adoprarsi a tradurre i testi dello studioso invece di scriverne la biografia, oggi siamo in una contingenza opposta rispetto a quella degli anni settanta. I testi di Warburg sono ormai accessibili e tradotti, si sono moltiplicate le imprese interpretativo-ecdotiche riguardo all’edito e all’inedito, si sono scritti saggi e intere monografie su singole righe vergate da Warburg. E il loro autore è lentamente retrocesso sullo sfondo, travolto da questa ribollente attività.

Ecco, il libro di Hans C. Hönes, Tangled Paths A Life of Aby Warburg (Reaktion Books, pp. 288, $ 40,00), pone in parte rimedio a questo stato di cose. Sin dall’introduzione l’autore dichiara il suo punto d’osservazione rispetto al vasto continente-Warburg. Rispetto alla sempre più dilagante tendenza a leggere il percorso dello studioso come un tutt’uno, unico e chiuso, nel quale la traiettoria è indicata sin dalle primissime prove giovanili, Hönes sceglie invece di sottolineare sia le discontinuità – di visione, di metodo, di interessi – che i vari ripensamenti e difficoltà che Warburg incontrò nel corso della propria tormentata esistenza.

Francesco del Cossa, Aprile, 1470, dettaglio degli affreschi di Ferrara, Palazzo Schifanoia

Quello scritto da Hönes è un volume agile e allo stesso tempo molto denso, attraverso il quale ci viene proposta una possibile via d’accesso al complesso mondo di Warburg. Una volta messo da parte l’impianto teleologico, l’autore si sforza di dare risalto a quegli elementi che contribuiscono a situare Warburg nel suo tempo e nelle sue geografie. Se centrali sono, nei primi anni, gli stimoli che arrivano dagli ambienti delle scienze – basterà ricordare le lezioni del neurologo Hermann Ebbinghaus, seguite a Berlino –, poco a poco l’orizzonte muta, e Warburg si muove sempre più verso gli studi storici, che però egli si sforzava di conciliare anche con le diverse discipline umanistiche. Se all’inizio fu centrale la ricerca di una chiave di tipo psicologico per spiegare le emozioni e soprattutto il loro legame con l’arte, negli anni fiorentini (1898-1902) fu il ‘positivismo storicista’ a guadagnare le attenzioni di Warburg, per essere poi scalzato da un metodo diacronico-comparativo, che privilegiava il confrontodelle forme artistiche attraverso il tempo, e che emergerà a partire dalla lettura degli affreschi di Palazzo Schifanoia pubblicata nel 1912. Hönes riesce a tracciare la parabola di Warburg quale studioso al di fuori del sistema accademico tedesco, e le difficoltà che ciò comporto sul piano personale, arrivando agli anni della nascita della Biblioteca che porta ancora oggi il nome del suo fondatore.

Anche gli anni del ricovero nella clinica di Ludwig Binswanger a Kreuzlingen (1918-’23), episodio che, di fatto, aveva condizionato tutta l’interpretazione del Warburg di Gombrich, sono ricuciti da Hönes sullo sfondo delle contraddizioni legate alla Prima guerra mondiale. Sfuggendo al tranello che Warburg stesso aveva teso ai suoi futuri biografi, l’idea di un percorso tutto unitario, dove tout se tient nella più adamantina unità dalla culla alla tomba, insistendo invece su come il suo percorso umano e professionale si sia di volta in volta ridefinito, Hönes ci restituisce anche una dimensione profondamente umana di Warburg; un uomo che, poniamo, era al tempo stesso ambizioso ma spaventato dal dover parlare in pubblico.

Se Gombrich aveva incorporato nel suo libro una larga messe di materiali inediti dagli appunti e dall’archivio di Warburg, Hönes può oggi fare a meno di quei materiali. Gli scritti sono utilizzati per scandire il percorso cronologico, ma l’autore si è mantenuto ben lontano dal sunteggiarli, privilegiando la narrazione biografica, con tutte le sue contraddizioni e le sue svolte improvvise. Sono proprio quei sentieri aggrovigliati cui fa riferimento il titolo che Hönes ha invece reso accostabili e percorribili. Come il narratore di Carlyle, ha accettato la sfida di resarcere le vicende del tormentato Warburg: ne è emerso vittorioso, con un libro condotto con grande maestria che, con un notevole ed encomiabile sforzo di sintesi, riesce a offrire un ritratto aggiornato e scevro da pregiudizi di uno dei più grandi intellettuali del Novecento.