Il jazz in Italia è una passione di minoranze e tale era ancora negli anni Sessanta e nei primi Settanta quando non soltanto la televisione (dove il jazz era quasi impensabile) ma la radio medesima gli lesinava spazio. Dunque gli appassionati aspettavano con ansia sul programma nazionale la rubrica di un pioniere nonché ottimo critico musicale, «Jazz concerto» di Adriano Mazzoletti (1935-2023), ed è lì che ogni tanto era ospite o veniva menzionato il nome di Walter Mauro, scrittore poligrafo e collaboratore della storica «Musica Jazz» di Arrigo Polillo, ma in origine musicista e nella fattispecie batterista in piccole formazioni dell’Urbe e poi dal ’49 nella «Roman New Orleans Jazz Band» come tale battezzata da Louis Armstrong in persona di passaggio a Roma.
Nato nel 1925, formatosi a Bari, studente incarcerato per antifascismo, Mauro aveva scoperto il jazz prendendo in mano negli anni della guerra un disco curiosamente intitolato Le tristezze di San Luigi e firmato dallo sconosciuto Luigi Braccioforte: si trattava in effetti del celeberrimo St. Louis Blues dello stesso Louis Armstrong, titolo e nome goffamente stravolti dalla xenofobia imposta per legge dal regime.

PER UNA FELICE eterogenesi dei fini, comunque, quel disco agisce su di lui a tal punto che nell’immediato dopoguerra Mauro scrive Storia dei neri d’America che è l’incipit di una folta bibliografia dove, per i successivi cinquant’anni, appunto convivranno il jazz e la letteratura. Esistono autori che non lasciano l’Opera ma affidano al corso del tempo precise testimonianze della cultura di cui sono e si sentono, innanzitutto, testimoni e osservatori: e testimone del suo tempo, dentro una longeva militanza letteraria e musicale, è stato fino in fondo Walter Mauro, da un lato firmatario di monografie quali Jazz e universo negro (’72) o di antologie (fondamentali la Antologia del Blues, del ’65, e la Antologia degli Spirituals, del ’66, condotte entrambe con la sua compagna, la poeta Elena Clementelli), dall’altro autore di una fitta saggistica di taglio divulgativo (qui basterebbero i nomi di Dante e di Ungaretti, suo maestro alla Sapienza) in cui prevale il talento didattico dello scrittore che, fra i suoi tanti mestieri, fu insegnante nell’Istituto San Leone Magno di Roma come attesta, trasfigurandolo in un personaggio, uno dei maggiori romanzi dei nostri anni, La scuola cattolica (2016) di Edoardo Albinati.
Alla passione primordiale per il jazz e alla pratica longeva della scrittura è dedicato il libro di memorie di Walter Mauro (scomparso a Roma nel 2012), da lui ultimato in punto di morte e oggi opportunamente riproposto a cura di Michela Monferrini, La letteratura è un cortile (Giulio Perrone editore, «Nuove Onde», pp. 165, euro 16). All’avvio, due ne sono gli epicentri: prima è Roma, quando il batterista Mauro inizia a scrivere sulle riviste di jazz e con articoli di critica letteraria a collaborare a Paese Sera, da militante di base del Partito d’Azione e in seguito da senza tessera del Pci, prendendo le difese di un neorealismo capace però di attingere un realismo ulteriore e più complesso alla maniera di Beppe Fenoglio, ovvero combinandosi con l’immaginazione (il suo film prediletto è non per caso Miracolo a Milano, ’51, di Zavattini e De Sica); poi, nel pieno degli anni Cinquanta, è Parigi dove Mauro suona al «Club Cavern Saint-Germain» e in altre caves dove convergono jazzisti ed esistenzialisti e dove incontra personaggi come lo scrittore Boris Vian, peraltro un virtuoso della trompinette, o un Miles Davis innamorato perso della giovanissima e già irresistibile Juliette Gréco.

MA PARIGI PER LUI vuole anche dire Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Françoise Sagan e giusto con loro viene iniziato all’arte dell’intervista, divenendone negli anni maestro sulla carta stampata come alla radio, e lo attesta il corposo volume redatto a quattro mani con Elena Clementelli, La trappola e la nudità: interviste a scrittori di tutto il mondo (’74). Il ritorno nella capitale, nei pieni anni Sessanta, è di un uomo ormai maturo la cui casa in via Giuseppe di Lando, dalle parti di piazza Bologna, diviene un crocevia sia per i jazzisti (vi si conserva infatti una discoteca specializzata che ha pochi eguali nel paese) sia per gli amici letterati, da Giorgio Bassani e Alberto Moravia a Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini.

A QUESTI ANNI RISALGONO alcune sue importanti monografie, il Leonardo Sciascia, del ’70, l’Invito alla lettura di Fenoglio, del ’72, e soprattutto il pionieristico James Baldwin, primo studio in italiano sull’amatissimo scrittore di La prossima volta il fuoco dove al tema di una atavica ingiustizia sociale si connette quello della discriminazione razziale, se in proposito scrive Mauro nella sua autobiografia: «Quando nel 1972, al Palazzo dello Sport per il XIII Festival Internazionale del Jazz di Bologna, avrei incontrato e intervistato insieme James Baldwin avremmo cominciato a parlare proprio del mito dell’invisibilità raccontato da Ralph Ellison (nel romanzo Invisible Man, 1953), di questa capacità dell’afroamericano perseguitato dai bianchi di rendersi invisibile: una delle caratteristiche degli scrittori di Harlem».

MA LA PARTE PIÙ VIVIDA de La letteratura è un cortile concerne senza dubbio i ritratti che Mauro sa stenografare con affettuosa puntualità. Fra i molti (e alcuni in absentia come il vecchio Aldo Palazzeschi recluso a Roma nell’appartamento-serra di via dei Redentoristi) spiccano ad esempio la figura del poeta brasiliano Vinicius de Moraes, che scrisse stupende canzoni per Tom Jobim e fu un intrinseco di Ungaretti; dello spagnolo Rafael Alberti, che a lungo abitò in Trastevere e fu il mallevadore di una intera colonia di autori iberici e sudamericani, García Márquez incluso; e ancora dello scrittore greco Vassilis Vassilikos, l’autore del leggendario romanzo Z (’66), in fuga dalla dittatura dei colonnelli, o infine di Philip Roth, laconico e persino scostante, e dell’ineffabile Eugenij Evtusenko, il bardo sovietico che seppe passare indenne dall’era di Stalin a quella di Putin.

IN CERTE FISIONOMIE, prese di scorcio e senza retorica alcuna, si avverte l’ombra sinistra della storia, come nel toccante ritratto di Il’ja Erenburg (1915-1967), l’autore dell’un tempo rinomato romanzo Il disgelo (’54, antefatto del periodo krusceviano) che tre mesi prima di morire venne a Parma per un convegno su Stendhal: «Un volto visibilmente vicino alla morte, come contratto da una immobilità che avanzava. La sua salvezza, la sua uscita di sicurezza era stata il cosmopolitismo, la capacità di andare oltre i confini della propria terra, oltre a una forza che io trovavo misteriosa, inspiegabile. Mi raccontò che provava terrore ogni volta che qualcuno bussava alla sua porta: ‘Ogni notte mi aspetto una scampanellata’, disse».
Se per essere un buon ritrattista, e prima ancora un buon teste, occorre la virtù primaria dell’ascolto, un’autentica attenzione all’altro da sé, per questo Walter Mauro preferiva mettersi di lato rispetto ai suoi interlocutori e ascoltarli piuttosto che incalzarli, scegliendo per sé il ruolo che un grande critico del Novecento defìnì del testimone secondario, il quale, nel teatro di un evento, non è mai in primo piano eppure è decisivo per ristabilire la verità dei fatti.

SCHEDA

Della vasta bibliografia di Walter Mauro resistono in libreria altri due volumi editi da Giulio Perrone: l’uno è la riproposta di La trappola e la nudità (2012) redatto con Elena Clementelli, una serie di interviste a scrittori -testimoni degli anni 60, da Moravia, García Márquez e Philip Roth a Jean-Paul Sartre e Eugenio Montale, l’altro è Miles e Juliette (2008) che ripercorre la breve e bruciante relazione, nella Parigi del dopoguerra, fra Miles Davis e Juliette Gréco. Allo scrittore è intitolato il «Premio Walter Mauro», sezioni di narrativa e poesia inedite, a cura di Giulio Perrone editore e della Società Dante Alighieri.