È il 1964 quando, sulla «Partisan Review», compaiono le ormai proverbiali Notes on Camp di Susan Sontag, omaggiate, anche di recente, da una mostra al Metropolitan di New York, promossa dal Costume Institute a ispirazione dell’immancabile Gala del 2019, quello in cui Lady Gaga servì da matrioska per Brandon Maxwell e Kate Perry illuminò lo scalone sulla Quinta come un candelabro de La Belle et la Bête.

Il saggio – ridefinizione di un’etichetta estetica alla base del credo postmoderno – recita, al paragrafo nono, fra le molte didascalie epigrammatiche mescolate in squisito accumulo di nomi, generi e categorie: «As a taste in persons, Camp responds particularly to the markedly attenuated and to the strongly exaggerated. The androgyne is certainly one of the great images of Camp sensibility. Examples: the swooning, slim, sinuous figure of pre-Raphaelite painting and poetry; (…) the haunting androgynous vacancy behind the perfect beauty of Greta Garbo».

Fra le prime voci di un elenco che include, come icone naturali del Camp, Jayne Mansfield e Bette Davis, Edwige Feuillière e Virginia Mayo, si riconoscono pertanto silhouette inconfondibili – quella, sempre identica, dei figurini di Burne-Jones, oltre all’ovale immenso della diva svedese, volto pallido d’eterna fotogenia – servite poi da titoli per un paio di collezioni presentate a MareModa Capri del 1971 dallo stilista Walter Albini, al centro oggi di una monografica al Museo del Tessuto di Prato: Walter Albini. Il talento, lo stilista, a cura di Daniela Degl’Innocenti ed Enrica Morini (fino al 22 settembre, catalogo Skira).

Lo strumento riaffilato dalla Sontag può servire da utile ricorso nell’interpretazione dei linguaggi di un artista che pubblicazioni recenti (dal volume del 1988 a cura di Paolo Rinaldi a quello del 2010, messo assieme da Maria Luis Frisa con Stefano Tronchi) hanno descritto fra gli anelli essenziali per la catena storica della moda italiana di secondo Novecento. La proposta potrebbe suonare provocatoria o semplicemente dissonante, abituati come siamo, dalla letteratura critica alla cultura di massa, a circoscrivere la casistica del Camp nella preferenziale declinazione «in drag», cara all’analisi queer militante, sull’esempio seminale di José Esteban Muñoz, quanto a un interprete icastico della fatta di Ru Paul: tuttavia lo stesso articolo del ’64 apre a polarità irrisolte, che indicano come tale categoria si adatti all’eleganza quintessenziale delle mises di Albini.

Dichiara infatti la Sontag che, per rientrare sotto il suo grande cappello ermeneutico, ci si può muovere tra la più pura naiveté e un artificio integrale, accordando la propria, personale espressione agli effetti implicati da attitudini opposte (seppur non contrastanti), nel ricorso fedele a un’apparenza nonchalante per realizzare formule ardite: sprezzatura. Il fondamento del Camp andrebbe dunque ravvisato in un’inevitabile «theatricality», che si giustifica nell’innocenza appassionata degli intenti, legata a una stravaganza fuori misura delle ambizioni.

Walter Albini, 1972

È in questa griglia che si colloca – e con agio – la moda di Albini, lungo un arco creativo che dalla fine degli anni sessanta raggiunge il principio degli Ottanta, in anticipo su una scomparsa prematura e in conseguenza a un’ancora indecifrabile uscita di scena. E lo fa non solo per l’assai contemporanea sfida, raccolta dallo stilista, nell’uniformare i corpi di uomini e donne, attraverso un uso coerente, concettoso dei tagli, dei materiali e dei capi pertinenti a un comune guardaroba (aspetto ben esemplato dal percorso pratese); una simile assonanza si riscontra soprattutto nel desiderio di sognare un sogno nutrito di fotogrammi e di maschere, di memorie e di visioni; di renderne «viva» la consistenza intangibile; di materializzare un canone, fitto di rimandi eterocliti e eterodossi, riuniti dal giudizio di un gusto infallibile, rivolti tutti a una ben precisa fisionomia del glamour, tra Marlene e Busby Berkeley, tra Biarritz e l’avventura coloniale.

In tale ottica, sembra anche possibile rileggere il peculiare revival proposto dalle sue composizioni, tendenza che trova fisionomia distintiva pur nell’ampia vague retrò promossa dalla Storia e dall’instabilità del mercato nella moda europea al tempo della contestazione e della crisi petrolifera. È vero infatti che, mentre Albini tornava all’immaginario cosmopolita di un certo beau monde fra le due guerre (travolto, ma non cancellato, dalla crisi del ’29), Saint-Laurent reinterpretava l’éclat tenebroso degli anni quaranta nello scandaloso defilé del gennaio ’71 e Biba apriva l’arcinoto showroom Art Decò in Kensington High Street, archiviando d’un colpo la fama di Bazaar, di Mary Quant e di una certa Swinging London. Tuttavia, spetta all’italiano il merito d’aver riportato in auge, tanto negli abiti quanto nello scaltro merchandising, una lezione più filologica nel suo sguardo retrospettivo, nel raffinare interpretazioni che trovano proprio in questo ‘scrupolo’ la chiave stessa del loro ‘campismo’. Non a caso, come annotato nel bel catalogo di mostra, una delle accuse ricorrenti mosse ai suoi defilés, pur da voci aggiornate come quella del collega (e competitor) Emilio Pucci, mirava al «rifacimento spettacolare» di stili trascorsi, «in mano un Vogue del 1938 o del ’39 o del ‘41»; metodo destinato ad apparire, nei commenti dei malevoli, «pesante, triste e stonato», almeno di fronte alle necessità di «novità o fantasia» di ogni creazione sartoriale.

La valentia pubblicitaria del designer lombardo (Albini era nato a Busto Arsizio nel 1941) testimonia invece di quanto la citazione puntuale, rigorosa fosse necessaria a puntellare un intero immaginario, mosso attorno ai singoli abiti, a ciascuna collezione, da Anagrafe a Antique Market, passando per Crociera e Safari; e ancora una volta il saggio della Sontag risulta decisivo nel comprendere in che modo una simile «impersonation» fosse decisiva per trasformarne la produzione in una serie di capi in grado, simultaneamente, di stupire per la loro fattura, di evocare per il loro disegno, senza nulla perdere in originalità, pur avendo costantemente a che fare con «l’out-of-date, il demodé».

Alfa Castaldi, modelli della collezione per Montedoro, PE 1971, part.

«It’s not a love of the old as such. It’s simply that the process of aging or deterioration provides the necessary detachment (…). Time liberates the work of art from moral relevance, delivering it over to the Camp sensibility… Another effect: time contracts the sphere of banality (…). What was banal can, with the passage of time, become fantastic». Rivendicare per Albini una simile genealogia, d’altronde, significa non tanto ridurne l’apporto a una mera etichetta, quanto piuttosto riaffermarne la perfetta, rabdomantica sincronia con lo spirito del tempo; ed è allora interessante che un’esposizione così documentata, così ben costruita come quella di Prato, ci aiuti a riflettere sull’attualità del suo linguaggio, magnificandone a un tempo l’apporto decisivo ai complessi meccanismi dell’industria, sospesa ancora – alla fine degli anni sessanta – fra i privilegi dell’haute couture e il futuro del prêt-à-porter.

Anche per questo, per inaugurare il percorso al Museo del Tessuto, la scelta non poteva che ricadere sulle foto di classe del periodo passato da Albini all’Istituto per il disegno di moda e costume di Torino: la tenerezza di quegli scatti lascia infatti trasparire ragioni ulteriori, più intime alla base del suo operare, lampanti nella linea perfetta dello smoking perso fra le gonne delle compagne di corso, al ballo di diploma di una scuola che, sino a quel momento, era stata pensata per un corpo studentesco di sole alunne.